Il segretario e il gioco al rialzo: meglio fallire che restare fermi
ROMA — Gli amici gli avevano detto di evitare gli azzardi. I fedelissimi gli avevano suggerito di non presentarsi alla riunione dei deputati pd della commissione Affari costituzionali della Camera. E lui? Lui ha ascoltato, sorriso. E fatto, come sempre di testa sua. Cioè si è presentato alla riunione del gruppo del Partito democratico. Ha avuto ragione: «Dicevano che io non controllavo il gruppo? Che è successo? Tutti mi hanno detto sì, persino Cuperlo. Niente emendamenti che rompevano le scatole. In compenso Forza Italia che aveva accettato la soglia al 38 per cento ora con Berlusconi ha bloccato tutto, ma fa parte del gioco delle trattative», è un sindaco di Firenze felice della prova di forza eseguita e vinta quello che a sera chiacchiera con i suoi e non sembra dare troppa importanza ai problemi con FI.
Renzi è un Frecciarossa, che si ferma, a mala pena, a Roma, giusto perché non potrebbe fare altrimenti. E mentre è lì nella capitale e vede Denis Verdini e Angelino Alfano (in tempi separati e ognuno a quattr’occhi), avverte i democratici che la direzione che aspettavano per il 30 gennaio sarà invece per il 6 febbraio. Peccato se Enrico Letta e il suo governo perderanno altro tempo per preparare l’ «Impegno 2014» ma prima di quella data il Partito democratico non è in grado di fare il punto della situazione. E infatti l’ordine del giorno della riunione, negli sms che arrivano a tutti i parlamentari e ai componenti del parlamentino del Pd recita così: «Patto di coalizione, più varie ed eventuali».
Il Jobs act è sparito di nuovo. Non c’è più, con buona pace di chi era convinto che fosse quello l’oggetto della riunione. Quello è un programma che va bene per «una campagna elettorale», dice uno dei fedelissimi del sindaco di Firenze, non un «compromesso al ribasso per trattare con Alfano, Lupi, Quagliariello e Giovanardi». Tradotto dal politichese all’italiano: il Jobs act sarà materia di campagna elettorale in vista delle elezioni europee, non materia di scambio con il Nuovo centrodestra per una mediazione qualsiasi che, magari, preveda un rimpastino. «Non è quello il mio obiettivo», spiega il segretario del Pd, che aggiunge: «Io a Letta non chiedo nemmeno uno sgabello, neanche ora che De Girolamo si è dimessa». E ancora, sempre ai fedelissimi: «Su queste cose decida lui. Gliel’ho già detto molte volte: lo scontro politico continuo con me è controproducente. Per il governo e per la legislatura, più che per il Pd e per me. Credo che lui ormai abbia capito che se gli consiglio di occuparsi del governo lo dico per il suo bene. Non è che l’esecutivo vada alla grande e noi del Pd vogliamo che invece faccia delle cose, che vada avanti, che non si impantani definitivamente nella palude italiana come il resto della politica».
Del resto, quello che pensa dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, Matteo Renzi lo ha detto più e più volte: « Io non sono e non voglio essere un ostacolo per Letta. Anzi, penso che grazie a me e a chi mi ha sostenuto in questo confronto sulle riforme abbia dimostrato quanto sia facile passare dalle parole ai fatti. È esattamente quello che si chiede a Letta: andare avanti, lasciando da una parte le chiacchiere, ed esercitandosi sui fatti concreti».
Ma Renzi è conscio che la sua operazione è quanto mai rischiosa? Nel Pd, come si diceva, i suoi nemici non sono pochi, anche se la maggior parte preferisce offrire il sorriso al coltello. Ma quando qualcuno gli chiede come va, Renzi ostenta sicurezza e tranquillità: «La riforma va avanti, e mi pare che vada abbastanza spedita». Tutta questa ostentazione di sicurezza non convince i suoi avversari, ma l’uomo è fatto così. È più forte di lui: «Preferisco rischiare anche il fallimento, piuttosto che stare fermo nella palude. I contraccolpi ci saranno di sicuro e me li aspetto. Si serviranno di ogni mezzo e proveranno qualsiasi cosa per stopparmi. Ma se credono che io mi logori di qui al 2015 si sbagliano di grosso, possono aspettare… e avranno delle amare delusioni. A me portano bene tutti quelli che gufano sul mio insuccesso e sul mio logoramento». E ancora. «Il tentativo è sempre lo stesso. Ormai sono diventati monotoni. Non riusciranno a fermarmi, se lo mettano in testa. Non pensavano che io incontrassi Berlusconi al Nazareno e io l’ho incontrato, non si aspettavano che nel giro di poche settimane trovassi un accordo per le riforme elettorali e io l’ho trovato…».
Insomma, è sempre quella che il vice capogruppo del Senato del Pd, Giorgio Tonini, definisce la «mossa del cavallo», la sortita che premia il sindaco di Firenze e spiazza i suoi avversari interni. Tanto lui, ancora una volta, è pronto a giocare l’arma finale: «Niente riforma, niente legislatura, dunque voto».
Maria Teresa Meli
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