Il rebus dei numeri in Senato e l’urgenza di allargare l’intesa

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ROMA — Matteo Renzi parla di «grande sintonia» sulla legge elettorale e Silvio Berlusconi rivela che esiste un «accordo tra Pd e Forza Italia per rafforzare i grandi partiti». Ufficialmente non si conosce il testo dell’intesa, ma potrebbe essere ampia e coinvolgere anche le altre forze politiche. Tuttavia se, per una qualche ragione, saltasse tutto e il nuovo sistema di voto fosse frutto di un patto a due, se cioè non lasciasse alle piccole forze politiche altra possibilità che accettare o restare tagliate fuori, sorgerebbero dei seri problemi, soprattutto al Senato perché alla Camera i numeri sono tali da non costituire un assillo. A Montecitorio Forza Italia e Pd godono di una maggioranza che sulla carta — nonostante lo scrutinio segreto con il quale si approverà il testo — li mette al riparo da rischi. Al contrario di ciò che potrebbe avvenire nell’altro ramo del Parlamento. Parlando con chi a Palazzo Madama ci sta da tempo ed è un osservatore attento delle sue vicente interne, si scopre che i senatori del Pd di strettissima osservanza renziana, sarebbero non più di 25 su un totale di 108. Se si sommano ai 60 berlusconiani si arriva a 85. Siamo pertanto ben lontani dal quorum necessario per fare passare un testo, benché a costoro si possano associare alcuni dei sei senatori a vita (Mario Monti, Carlo Azeglio Ciampi, Claudio Abbado, Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo). Con loro il totale è al massimo 91. Sono insufficienti perché ne servono almeno 161, tenuto conto che l’assemblea è composta da 321 senatori e che il presidente del Senato, per prassi, non partecipa alle votazioni. In dettaglio, senza Pd e FI, la somma degli altri gruppi — che non sono tutti alleati fra loro — dà come risultato 153: M5S 50, Ncd 31, Lega Nord 15, Misto (Sel e altri) 14, Per l’Italia 12, Per le autonomie 12, Gal 11, Scelta civica 8.
Stando così le cose, nel caso di un patto a due tra Renzi e Berlusconi, sarebbero quindi soltanto 85 i senatori sui quali si fonderebbe una maggioranza parlamentare che non tenesse conto del consenso delle altre formazioni. Il punto politico è che il gruppo dei senatori del Pd è espressione della passata segreteria. Sono, cioè, in massima parte bersaniani, appartengono insomma all’attuale minoranza del partito fatta appunto di bersanian-cuperliani e civatiani perché le liste per le politiche del febbraio 2013 furono fatte inserendo pochi esponenti vicino a Renzi, battuto da Bersani alle primarie del 2012. Ora, però, il partito è guidato dal sindaco di Firenze che si è mosso subito dicendo che avrebbe cercato un’intesa sulla legge elettorale con chi ci stava, e non partendo dal recinto della maggioranza delle «intese ristrette» che sostiene il governo Letta.
Fatti gli incontri e arrivati alla stretta finale, alla vigilia del faccia a faccia con Berlusconi, la minoranza del Pd ha minacciato di fare cadere il governo se l’accordo non avesse compreso anche gli altri partiti della coalizione. Ufficialmente se si interpellano gli esponenti delle varie componenti nessuno è disposto ad ammettere che le forze in campo sono queste. Tutti si trincerano dietro frasi del tipo: «Quando la Direzione del partito, dopo avere valutato il modello elettorale, prenderà la decisione tutti noi saremo tenuti» a rispettarla e a comportarci conseguentemente, «saremo» disciplinati ed è quindi «da escludere» una spaccatura e «non è neppure all’orizzonte» una scissione. Comunque altri, sempre con la garanzia dell’anonimato, fanno notare che il fatto che il segretario non abbia reso noto il modello sul quale si è registrata la convergenza con Berlusconi dipende proprio dalla consapevolezza che senza il consenso dei «piccoli» la legge elettorale è destinata a non passare.
Lorenzo Fuccaro


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