by Sergio Segio | 31 Gennaio 2014 9:58
NEW YORK — Aveva la ragione la Fed, a scrollare le spalle davanti alla tempesta dei Brics. La locomotiva Usa forse non ha davvero nulla da temere. La crescita americana ormai sembra avere una forza propria, procede indisturbata pur fra tanti ostacoli. Nell’ultimo trimestre del 2013 il Pil degli Stati Uniti è aumentato del 3,2%, segnando così un’accelerazione sul finire dell’anno. Questa crescita robusta è accaduta “nonostante”. Nonostante la semi-paralisi di una parte dell’Amministrazione federale che tra ottobre e novembre dovette lasciare a casa senza stipendio quasi mezzo milione di dipendenti durante il braccio di ferro tra Barack Obama e la Camera sul tetto del debito (la spesa pubblica federale in quel trimestre è caduta del 12,6%, non a caso). Nonostante le turbolenze finanziarie dei paesi emergenti che già cominciavano a inquietare. Nonostante il graduale rallentamento dell’operazione stampa-moneta da parte della Federal Reserve, tagliata sul finire dell’anno da 85 a 75 miliardi mensili. Tutto ciò non ha pesato più di tanto, neppure sulle psicologia dei consumatori.
A trainare la crescita infatti hanno contribuito le spese delle famiglie: +3,3% malgrado le buste paga stagnanti di molti lavoratori dipendenti. Per continuare a spendere, le famiglie americane hanno dovuto ridimensionare i propri risparmi che sono ridiscesi al 4,3% del reddito disponibile (contro il 4,9% un anno prima). Da notare però un ruolo trainante e decisivo delle esportazioni. Il made in Usa ha avuto una performance brillante nell’ultimo trimestre, +11,4% di vendite nel resto del mondo. E’ questo uno dei “dividendi nascosti” della politica monetaria perseguita dalla Fed: inondando di liquidità i mercati la banca centrale ha anche di fatto ottenuto una svalutazione competitiva del dollaro che ha reso più attrattive le produzioni made in Usa.
Ora tuttavia un exploit simile per le esportazioni americane sarà più difficile da ripetere. Da una parte il dollaro tende a rafforzarsi, non tanto sull’euro, ma rispetto a diverse valute dei paesi emergenti travolti da sfiducia e fughe di capitali. Quegli stessi paesi emergenti peraltro diventano meno ricettivi verso i prodotti americani perché la crisi riduce la domanda interna in Brasile, Argentina, Indonesia, nella stessa Cina dove la crescita rallenta. E tuttavia nella seduta di martedì e giovedì del comitato di politica monetaria, la Federal Reserve aveva evidentemente già scontato la robusta crescita del Pil nel quarto trimestre 2013. Di qui la sua decisione di procedere indisturbata lungo un percorso già tracciato nell’autunno: tagliando cioè di altri 10 miliardi (stavolta a 65 mensili) l’ammontare dei suoi acquisti mensili di bond sul mercato aperto. Non c’è ragione di continuare quell’esperimento eccezionale che fu perseguito per quattro anni, irrorando liquidità in America (e inevitabilmente anche nel resto del mondo). Proprio quella politica contribuì a gonfiare una serie di bolle speculative nei paesi emergenti, che ora si stanno sgonfiando. La Fed è convinta che quel sostegno non sia più necessario, Wall Street che mercoledì era stata affondata dalla crisi degli emergenti ieri ha salutato il Pil americano con un vigoroso rialzo.
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