Il paradosso dell’Unione un sogno per i popoli dell’Est una delusione per i fondatori
BRUXELLES — Fuochi d’artificio a Riga per festeggiare l’entrata nell’euro. Clima da stato d’assedio agli aeroporti di Londra e Francoforte per il timore di una annunciata «invasione» di lavoratori bulgari e rumeni dopo la caduta delle restrizioni al trattato di Schengen. L’Europa che si affaccia al nuovo anno appare sempre più schizofrenica.
Sulle sue nuove frontiere esterne, l’Unione continua ad essere un faro verso cui si concentrano ambizioni e speranze. Dal Medio Oriente e dal Nord Africa cresce il flusso di migranti che rischiano la vita, e spesso la perdono, per raggiungere la terra promessa. In Ucraina la folla sfiora la guerra civile e sfida i carri armati per non perdere il legame con l’Ue e non essere risucchiata sotto il giogo di Mosca. Perfino Putin è costretto a fare concessioni, come la liberazione di Khodorkovsky e delle Pussy Riot, cedendo alle pressioni delle capitali europee.
Ma intanto nella Vecchia Europa cresce il disamore verso i simboli di quello che è stato il più grande progetto del dopoguerra. E cala, fino a scomparire, il senso di solidarietà che ha reso possibile la costruzione di quella che i trattati definiscono «una comunità di destini». La Gran Bretagna si avvia, nella rassegnazione collettiva, ad abbandonare un’Unione da cui si è di fatto già esclusa. E dovunque la classe politica si prepara allo tsunami delle destre populiste che potrebbero conquistare un terzo dei seggi alle prossime elezioni europee.
Così questo Capodanno 2014 ci regala due storie europee apparentemente inconciliabili. Quindici anni dopo la nascita dell’euro, nella notte del 31 dicembre la Lettonia è stata il diciottesimo stato ad adottare la moneta unica. La storia di questo piccolo Paese di due milioni di abitanti potrebbe essere un esempio per tutti. I lettoni avrebbero dovuto essere tra i primi est europei ad adottare l’euro. Ma nel 2008-2009 Riga fu letteralmente travolta dalla crisi finanziaria registrando in un solo anno una recessione del 25 per cento, che fa impallidire al confronto la catastrofe greca. A differenza dei greci e di altri «vecchi» europei, però, i lettoni non hanno cercato di evitare le dure medicine prescritte da Bruxelles. Le hanno applicate con stoicismo e determinazione. Ed oggi la Lettonia registra una crescita economica del 4 per cento annuo, un deficit dell’1,4 per cento, un debito irrisorio pari al 40 per cento del Pil e una disoccupazione al di sotto della media Ue. Il risultato del «miracolo lettone» è la sospirata adesione all’euro festeggiata ieri. Anche se, ha avvertito il premier Valdis Dombrovskis, l’ingresso nella moneta unica «non e’ una scusa per non perseguire un bilancio rigoroso e una politica macroeconomica responsabile». Parole che nell’eurozona ben pochi politici si azzardano a pronunciare con orgoglio.
Mentre la Lettonia raggiunge l’Estonia nella moneta unica (la Lituania, protagonista di un risanamento analogo arriverà l’anno prossimo), nella «vecchia» Europa il Capodanno ha portato una nuova folata di sospetti, paure e intolleranza. Dal primo gennaio infatti è finita l’eccezione al trattato di Schengen invocata da Gran Bretagna, Germania, Francia, Austria, Belgio, Lussemburgo, Malta e Olanda per limitare il diritto di stabilimento dei cittadini rumeni e bulgari. La novità è stata accolta, soprattutto nel Regno Unito, come l’annuncio di una imminente invasione barbarica: un arrembaggio indiscriminato ai posti di lavoro che già mancano e alle garanzie delle stato sociale che già barcollano. L’Italia aveva aperto le porte a bulgari e rumeni nel 2012 e l’invasione non c’è stata. La Commissione ha ricordato che nella Ue già lavorano tre milioni di immigrati dalla Bulgaria e dalla Romania e che difficilmente questa cifra è destinata ad aumentare in modo significativo. Senza contare il fatto che oggi, nonostante gli alti livelli di disoccupazione, ci sono in Europa almeno due milioni di posti di lavoro vacanti che pesano, questi sì, sulla tenuta dello stato sociale. Tutto inutile. I tabloid inglesi hanno mandato i loro inviati agli aeroporti di Londra per intervistare l’orda di invasori. Che naturalmente non si è fatta vedere. Intanto, però, la campagna terroristica ha fornito nuovo combustibile ai movimenti nazionalisti e xenofobi che, dalla Gran Bretagna alla Francia, dal Belgio all’Olanda, si preannunciano come i trionfatori delle prossime elezioni europee.
Qual è allora il volto di questa Europa del 2014? Quello ottimista e determinato della piazza di Riga in festa, o quello oscurantista e spaventato dell’aeroporto di Heathrow che aspetta i barbari che non verranno? Quello della solidarietà e della responsabilità, o quello della diffidenza e dell’opportunismo? I due volti di un’Unione schizofrenica si inseguono e si combattono ormai da sei anni, dall’inizio della crisi che ha messo in discussione tutti, ma proprio tutti i valori fondanti dell’Unione. L’unica previsione che si può fare è che la schizofrenia continuerà anche nell’anno appena cominciato. La lunga guerra interiore dell’Europa con se stessa non è ancora arrivata alla battaglia finale.
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