Il no del sindaco sulle preferenze nel duello serrato con il vicepremier
ROMA — C’erano una volta vertici dove i leader di partito annegavano minacciosi avvertimenti e offerte di patti dentro lunghe prolusioni politiche, che toccava all’interlocutore interpretare. Ieri invece Renzi e Alfano si sono visti ma è come se abbiano twittato, scambiandosi frasi brevi, con un linguaggio diretto e a tratti ruvido, quasi fosse un incontro di ping pong. Se sia l’alba della Terza Repubblica o l’epilogo della Seconda si vedrà, di sicuro ieri il segretario del Pd — che si è intestato la partita della riforma elettorale e che finora ha tenuto coperto il proprio gioco — ha dovuto iniziare a scoprire la prima carta. Ed è stato subito scontro.
Certo, il primo colloquio non poteva che essere interlocutorio, ma il nodo delle preferenze su cui si è incentrato parte dell’incontro segna una distanza che il leader del Nuovo centrodestra non intende colmare. Lo si era capito da come si era presentato all’appuntamento, con un’intervista a Radio Anch’io in cui per la prima volta aveva risposto alle «provocazioni» di Renzi: «L’arroganza non paga». E giusto per non dar segni di cedimento, il capo democrat gli ha offerto il suo biglietto da visita: «Ci tengo a tener salda la maggioranza e a ricercare l’intesa sulla riforma, ma non riconosco poteri di veto».
Alfano però è convinto che la sentenza della Consulta abbia cambiato verso alla sfida, scaricando l’arma del rivale-alleato, e rendendo «meno forti i ricatti politici». Perciò ha tenuto il punto. E appena Renzi ha provato a spiegare la sua «preventiva» contrarietà al sistema delle preferenze, ha replicato che «noi non accettiamo l’idea di avere di nuovo dei parlamentari nominati o paracadutati», con esplicito riferimento al modello spagnolo delle liste bloccate e al Mattarellum dei collegi scelti per i candidati dalle segreterie dei partiti.
La divergenza cela differenti interessi: mentre Renzi punta sulla propria leadership e non intende perdere il controllo dei gruppi con le preferenze, Alfano ne ha bisogno per garantire e affermare l’identità del suo Ncd quando si dovrà coalizzare alle elezioni. Sul «metodo» da adottare nella trattativa si è infatti trovato d’accordo con il leader del Pd, che sottolineava come «non si possono rifare le regole del gioco estromettendo a priori qualcuno». «E infatti sono favorevolissimo a coinvolgere Forza Italia, figurarsi», ha replicato il vicepremier: «Ma non posso accettare che l’intesa sancisca la nostra fine». Perciò «se si va sul sistema spagnolo salta tutto». «Beh, se saltasse tutto — ha controbattuto Renzi — avremmo il tempo di mettere a posto il testo scritto dalla Consulta per poi andare al voto».
Ma davvero il sindaco di Firenze è disposto a rischiare la lotteria di un modello elettorale che lo penalizzerebbe? E davvero il vicepremier è pronto a far saltare il governo su cui ha sancito la divisione dal Cavaliere? Nel primo incontro andava consumato il rito dei reciproci avvertimenti, e così è stato. Ma in questa fase tattica, Renzi marca una difficoltà rispetto ad Alfano. Non solo la velocità impressa alla trattativa si è trasformata in fretta, visto che il Parlamento attende un testo di legge che ancora non c’è. In più lo scudo berlusconiano con cui sta cercando di imporsi nella maggioranza, si è trasformato in un boomerang.
La tribuna concessa all’ex premier ha fatto emergere il dissenso nel suo partito che finora si era limitato al pissi-pissi di Palazzo. Ce n’è la prova, se è vero che dirigenti di Forza Italia e di Ncd si sono sentiti dire da autorevoli esponenti democratici di «lasciar perdere quello che dice Renzi». E non è un caso se oggi in direzione il segretario chiederà la delega a «trattare personalmente» sulle riforme e la legge elettorale. Sì, ma a quali condizioni? Perché il Pd si è trasformato in una polveriera e — così come Berlusconi fa con Renzi — i «governativi» democrat stanno offrendo una sponda alle mosse di Alfano, che ieri ha provato a stringere l’interlocutore su un altro tema: «Il Pd si deve assumere la responsabilità di entrare nell’esecutivo».
Il concetto sembra un paradosso, ma il vicepremier non può accettare un Renzi di lotta e di governo che lo logorerebbe. Per tutta risposta Renzi si è rimesso al patto di programma, e sgusciante come una saponetta ha rimesso a Letta il tema di eventuali cambi nella squadra di Palazzo Chigi: «Valuti lui, decida lui». Sarà, ma sul rimpasto c’è la prudenza di Napolitano, che ieri il premier è andato a sondare giustappunto. Un conto sarebbe la sostituzione di un paio di ministri, altra cosa un profondo riassetto. Il «precedente Andreotti» — che cambiò cinque ministri in una notte senza passare per un cambio di governo — non lo convince né lo avallerebbe. E di un Letta-bis non vuol sentire parlare, vista la fragilità del quadro politico.
Ecco lo stallo, in cui la fine delle «piccole intese» incrocerebbe il fallimento di Renzi sulla legge elettorale: chi potrebbe permettersi una simile crisi di sistema? Finita la partita di ping pong i due si sono ripromessi di vedersi ancora: i primi giorni della prossima settimana saranno decisivi per scrivere il testo base del nuovo sistema di voto. Coincidenza: per quei giorni Letta conta di aver redatto il programma di governo…
Francesco Verderami
Related Articles
Rimborso ai partiti, nuova fumata nera
Ostruzionismo della Lega, il voto sul taglio ai finanziamenti rinviato a martedì
L’appello di Kerry: «Fate presto, serve stabilità »
Il segretario di Stato Usa a Roma scambia idee con Prodi e D’Alema sul «fattore Beppe Grillo»
Piazze piene e cene-premio Grillo a caccia degli indecisi