Il cuore del segreto, attrazione fatale

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Le storie della letteratura non ricordano con il dovuto rispetto Filippo Pananti, poeta di Ronta del Mugello morto nel 1837 e vissuto in esilio per anni, che durante un viaggio in mare finì nelle grinfie dei pirati e fu ridotto in schiavitù ad Algeri. Lasciò dei puntuti Epigrammi, tra l’altro pubblicati postumi, nei quali non si era scordato il tema del segreto. Forse anche per sbertucciare taluni vezzi neoclassici evocanti gli antichi misteri: «A chi un segreto? Ad un bugiardo o a un muto./ Questi non parla e quei non è creduto».
Ci scuserà Claudio Magris se ci è venuto in mente questo letterato, che adorava Laurence Sterne, leggendo il suo delizioso librino Segreti e no (Bompiani), ma tali pagine portano lontano e consentono voli e associazioni imprevedibili. D’altro canto Magris scrive su codesto argomento lasciandosi sfuggire ora un sorriso, ora rivelando un autore caro (verrebbe voglia di scrivere «segreto»), ora ponendo in evidenza quei punti fermi che fanno parte ormai dell’anima di questo scrittore. Nelle sue pagine ci sono definizioni («il segreto invita a essere custodito ma anche a essere violato, due impulsi contradditori e spesso ambiguamente intrecciati»), non mancano sottolineature interpretative («ogni cultura che privilegia il segreto assume un tono ieratico e iniziatico»), né considerazioni politiche. E qui, dopo aver ricordato gli agenti segreti proprio nelle prime righe dell’opera, categoria che tutti gli Stati utilizzano, si sofferma sui «misteri delittuosi della vita pubblica», ben conosciuti dalla nostra storia recente: «Il segreto viene svelato quando è divenuto inoffensivo, come un adulterio che venga alla luce quando il matrimonio è già finito per tutt’altre ragioni». Insomma, le cause di tante stragi «che hanno insanguinato l’Italia negli anni settanta, su Usti- ca e così via», saranno note quando «non avrà più importanza, almeno per quel che riguarda l’esercizio del potere, conoscere la loro verità». Per questo, nota finemente l’autore, non sappiamo ancora con certezza se sia- no stati i romani o gli ebrei a processare Gesù, giacché «potrebbe avere delle conseguenza politiche». Magris coglie il salto religioso che si cela nella questione. È fondato su una tradizione antichissima e non sono stati certamente i progressi del mondo contemporaneo a renderlo sterile. «Alla custodia del segreto — scrive — non è sufficiente il labirinto dei de- pistaggi politici, della distruzione del materiale, della falsificazione. È necessaria una interdizione sacrale, un divieto d’accesso a coloro che non devono conoscere il segreto. È necessario che il segreto, qualsiasi esso sia, diventi il Sacro, l’Ineffabile, l’Inconoscibile; una verità superiore accessibile soltanto agli iniziati, a chi è autorizzato da una misteriosa, divina autorità superiore a conoscerlo e a impedirne la conoscenza al volgo». In altri termini, il segreto si trasforma in mistero, in qualcosa degno di essere trattato soltanto da coloro che hanno «un mandato religioso». Già, mistero: trova la sua radice nel verbo greco myein, che indica l’atto di chiudere, o meglio socchiudere, gli organi dei sensi.
Magris si sofferma brevemente sui Misteri Eleusini, su quelli dionisiaci o di Samotracia o degli Orfici, e questi ultimi la sapevano lunga; il sesto capitoletto inizia con il segreto della confessione prescritta dalla Chiesa cattolica. Certo, non è un trattato scientifico sul tema, ma offre pagine che invitano a riflettere su un argomento che la società dell’informatica ha reso particolarmente attuale. Mentre perdiamo il segreto bancario e quel- li professionali non se la passano nel migliore dei modi, sempre più rilevatori e occhi elettronici cercano di carpire i nostri atti. Anche quelli intimi.
In margine è forse il caso di aggiungere che la Chiesa cattolica resta l’istituzione più esperta nell’amministrazione del segreto, dalle rivelazioni nate a Fatima alla prassi che caratterizzava il Sant’Uffizio, via via sino a quello sacramentale. Anzi, quest’ultimo ha una storia teologica che corre nei secoli: Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae sottolinea che l’obbligo del segreto sacramentale scaturisce direttamente dalla stessa divina istituzione della penitenza e della confessione non rivelabile. Origene, uno dei padri più dotti della Chiesa greca, nel suo Commento al Levitico paragona la confessione alle manifestazioni fatte al medico per una ferita nascosta. E per chiudere con un altro esempio simile tra i mille possibili, il persiano convertito Afraate e forse vescovo nel IV secolo, nonostante abbia affermato che l’anima dopo la morte ?? assuma uno stato di letargia spirituale fino al giorno della resurrezione, raccomandò di affidare i propri segreti ai sacerdoti, i veri medici di questa entità tanto discussa. Di certo la locuzione «segreto di Pulcinella» non nacque in ambito ecclesiastico.
Magris ricorda non pochi momenti della letteratura. A cominciare dal grande critico di Kafka, Goldstücker, «svegliato e arrestato di notte dalla polizia segreta comunista»: quando chiese di che cosa fosse accusato, «uno sgherro gli diede uno schiaffo dicendogli che era lui a conoscere e a dover spifferare le propie colpe segrete». Poi ecco Javier Marías, ricordato con queste magistrali osservazioni: «Raccontare deforma, raccontare i fatti deforma i fatti e li altera e quasi li nega, tutto ciò che si racconta diventa irreale e approssimativo benché veritiero, la verità non dipende dal fatto che le cose siano o succedano, ma dal fatto che rimangano nascoste e non si conoscano e non si raccontino». D’altra parte il protagonista del suo romanzo Un cuore così bianco afferma all’inizio che non voleva sapere ma ha saputo, e questa conoscenza è una sventura più che una liberazione. Che dire? Per il volpino e sottile gesuita del Seicento spagnolo Baltasar Gracián la verità altro non è che un salasso del cuore e tacerla, ovvero ridurla a segreto, può diventare un atto generoso. Magris trova la più bella difesa del segreto in Torquato Accetto, ne Della dissimulazione onesta: ma in tal caso lasciamo al lettore il compito di proseguire in queste magistrali pagine l’ardua questione. Aggiungiamo soltanto che Machiavelli ne Il principe, laddove tratta di come si debbano fuggire gli adulatori, scrive: «L’imperatore è uomo secreto, non comunica li sua disegni con persona, non ne piglia parere». Ha ragione Magris: «Il potere ha sempre bisogno del segreto».


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