I rilanci del segretario e la maggioranza logorata

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ROMA — Non c’è verso, il bradisismo continua.
Al presidente del Consiglio è chiaro, e non da ieri, cosa Renzi desideri. E il ministro della Difesa Mario Mauro, trasformandosi in portavoce di Palazzo Chigi ne spiega il senso: «Non è vero che il segretario del Pd sia disposto ad accordarsi anche con il diavolo pur di avere una nuova legge elettorale. Lui è disposto ad accordarsi anche con il diavolo pur di avere una nuova campagna elettorale. Lui vuole la testa di Letta». Solo che Letta, in sintonia con Alfano, ha messo a punto una strategia di contenimento per «evitare contrapposizioni frontali» con il capo democrat, e non dandogli «pretesti con un’escalation del conflitto», e mirando semmai a chiudere «nel giro di due settimane» il contratto di governo, così da potersi rilanciare.
Non sarà facile, ma non è nemmeno facile per Renzi centrare l’obiettivo che si è dato, a maggior ragione adesso che il premier si è ritagliato il ruolo di mediatore nel braccio di ferro tra Pd e Ncd sul programma dell’esecutivo. Il leader democratico non può permettersi di venire declassato sulla scena a semplice contraente del patto, perciò si trova «costretto» a terremotare quotidianamente la maggioranza, anche se non è chiaro quanto l’incidente di ieri con Fassina sia frutto di un’azione mirata o del caso.
Forse il segretario del Pd non immaginava che la sua sferzante battuta sul viceministro dell’Economia potesse provocare una scossa tellurica, ma è certo che avesse chiesto all’esponente del suo partito di sgomberare la scrivania a via XX Settembre. E Fassina ha sfruttato l’occasione dimettendosi, incurante delle richieste del premier che gli ha chiesto di non farlo: «Non farlo, Stefano». «Si è superato il segno», è stata la risposta prima di ufficializzare le dimissioni, e dopo aver ribadito al premier che lo aveva avvertito, «invece da settimane non fate che minimizzare gli attacchi di Renzi».
Appunto. Letta non vuole offrire pretesti al «rottamatore». Fassina invece lo cercava. È vero, è rimasto «colpito per il modo in cui il segretario del Pd ridicolizza il lavoro delle persone e la loro dignità politica», ma l’occasione è funzionale al suo scopo, quello di accusare Renzi per «l’idea padronale che ha del partito» e per intestarsi così una battaglia interna, facendosi di fatto alfiere di una futura minoranza organizzata. È il primo vero gesto di dissenso tra i democratici, e se il presidente Cuperlo arriva a dire che l’affondo del segretario «non è un buon segno», vuol dire che i contrasti sono destinati ad aggravarsi.
Certo, al momento Renzi ha il vento in poppa, ma presto dovrà fare i conti con la gestione del Pd, in Parlamento e sul territorio. Per esempio il primo test elettorale della sua segreteria, in Sardegna, si preannuncia delicato, segnato com’è dagli scandali e dai veleni che stanno precedendo il voto, previsto a febbraio. Eppoi ci sono i gruppi parlamentari, che non sono a trazione renziana. È lì che cova un forte malcontento, e i rumori si diffondono nel Palazzo al punto da far dire al ministro Lupi: «Renzi vuole fare la crisi? E chi lo segue. Nel Pd, dico… Perché un conto sono le primarie, altra cosa la gestione di deputati e senatori».
Insomma, l’impressione è che il gioco al rilancio del segretario democratico serva anche a oscurare le difficoltà di guidare un partito che non si è (ancora) allineato al nuovo leader. Così sembra sia in atto una corsa contro il tempo: da una parte Renzi dall’altra Letta, con in mezzo un Pd in stato di agitazione. Le fibrillazioni minano la solidità del governo, non c’è dubbio, ma non sembrano rafforzare Renzi. Se è vero infatti che il premier non può permettersi un rimpasto, vista la fragilità del suo gabinetto, è altrettanto vero che quel rito antico mina nella pubblica opinione l’immagine del neo segretario, che smentisce sempre di pensarci. Ma ora che Renzi ha fatto «saltare» Fassina e che Letta ha deciso di non sostituirlo, tutto è più debole: nel partito e nell’esecutivo.
Erano queste le intenzioni del leader democratico? Il ministro Quagliariello, spesso colpito dagli attacchi di Renzi, si toglie un sassolino dalla scarpa: «Vedrete che Renzi si darà una calmata. Lui impara in fretta. E sicuramente capirà che nei comizi si può anche indossare il giubbotto di Fonzie, ma quando si guida un partito è consigliabile indossare giacca e cravatta». Fuor di metafora, il passaggio politico è delicato. Incrocia le fibrillazioni sulla trattativa per la nuova legge elettorale, e Berlusconi — a cui Renzi ha fornito un formidabile palco per tornare in scena — non vuole perdere l’occasione. Per puntare al voto subito o per collaborare al logoramento di Renzi, si vedrà.
Sta di fatto che il Cavaliere prepara la sua mossa e ha informato il segretario del Pd che martedì riunirà il suo partito e formalizzerà la sua offerta: «Forza Italia è disponibile a discutere sul Mattarellum o sul modello spagnolo, a patto di andare alle elezioni in primavera». Come risponderà Renzi? Accetterà il gioco, mettendo a repentaglio la stabilità dei suoi gruppi oltre che quella del governo? «La frattura che si è aperta nel Pd determina il caos», dice il ministro Mauro a nome dei Popolari: «L’atteggiamento irresponsabile di Renzi rischia di vanificare i sacrifici fatti dagli italiani. Se lo spread dovesse rialzarsi, saprebbero a chi rivolgersi».
Francesco Verderami


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