I giovani italiani che ignorano quello che serve per lavorare

by Sergio Segio | 14 Gennaio 2014 7:47

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BRUXELLES — La prima è una notizia tristemente già vecchia, da archivio: «La disoccupazione giovanile in Italia è raddoppiata dal 2007, toccando il 40% nel 2013». (41,6% oggi, ndr ).
Ma la seconda no, la seconda notizia morde nel vivo: «Tuttavia, questa cifra è solo parzialmente dovuta alla crisi economica: i problemi ribollono molto più nel profondo… Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati».
Infatti: lo stesso lamento echeggia fra il 45% degli imprenditori greci, il 33% degli spagnoli, il 26% dei tedeschi. Ma da nessuna parte, come da noi. In Italia, dunque, cercansi coloro che hanno gli skill , le attitudini, le capacità, i talenti richiesti da questo o quel settore. Ce n’è tanti. Gli imprenditori non li trovano, loro non sanno come e dove farsi cercare: «Non hanno le informazioni su come prendere decisioni strategiche». Domanda e offerta non si incontrano, e nessuno spread riesce a farle metterle in contatto, a far scattare il semaforo.
Tutto questo dice il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato ieri a Bruxelles presso il centro di ricerca Bruegel («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione»).
Il dossier spiega anche che «la Ue ha il più alto tasso di disoccupazione ovunque nel mondo, a parte il Medio Oriente e il Nord Africa». Per poi sferzare: «In Italia, Grecia, Portogallo e Regno Unito sempre più studenti stanno scegliendo corsi di studio collegati alla manifattura, alla lavorazione, nonostante il brusco calo nella domanda in questi settori. E in generale, non è una cosa positiva vedere un ampio numero di giovani scommettere il loro futuro su industrie in decadenza… Ci sono abbinamenti sbagliati, educatori e imprenditori non stanno comunicando fra loro».
È precisamente quanto accade nel nostro Paese: «Datori e fornitori di lavoro o di istruzione hanno percezioni molto differenti. Il 72% degli educatori in Italia pensano che i ragazzi abbiano le attitudini di cui avranno bisogno alla fine della scuola; ma solo il 42% degli imprenditori concorda con questo. La percezione di questo divario riflette una mancanza basilare di comunicazione. Solo il 41% dei datori di lavoro dice di comunicare regolarmente con i dirigenti delle scuole, e solo il 21% considera questa comunicazione effettiva».
In apparenza, tutto sarebbe abbastanza semplice: bisogna, dicono i ricercatori McKinsey, «incoraggiare gli educatori a insegnare quello che gli imprenditori richiedono».
Ma l’apparenza sfuma quando, per esempio, si studia la differenza fra il «desiderio» di un imprenditore nei confronti di certe capacità professionali e la competenza reale in quegli stessi skill dei giovani in attesa del posto: in Italia, il «desiderio» o bisogno imprenditoriale di una buona conoscenza dell’inglese fra i propri dipendenti è soddisfatto solo dal 23% degli aspiranti, e quello di una competenza informatica appena dal 18%. Mentre la richiesta di creatività, che in Germania trova solo un 13% di risposte fra i giovani, in Italia arriva al 19%. Ma resta anche un concetto assai vago. In cima a tutti i sogni degli imprenditori resta la «conoscenza pratica», in qualunque settore (risposta del ventenne: ma dove la faccio, l’esperienza, se tu non mi assumi?). Mentre il lavoro più ambito dai nostri giovani è il creatore di siti Web (61% contro il 58% di «sì» dei giovani tedeschi): e però cercansi attitudini supportate da conoscenze, anche qui.
Le conseguenze di tanti squilibri si ripercuotono in ogni settore. Gli stage, i periodi di rodaggio in azienda, un tempo considerati isole di speranza e anello diretto fra la scuola e il lavoro? Il 61% in media dei giovani europei trova un posto di lavoro al termine di uno stage. In Italia, sono meno del 46%. E ancora: Portogallo, Italia e Grecia hanno la più alta percentuale di giovani che riferiscono di non aver potuto frequentare l’università per ragioni economiche; «ed è in questi tre Paesi che la più bassa proporzione di giovani (sotto il 40%) ha completato l’istruzione post-secondaria».
Chissà che cosa avrebbe detto oggi il buon maestro Manzi, quello di «non è mai troppo tardi».
Luigi Offeddu

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