I filantropi in salvataggio dei pensionati di Detroit

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DETROIT (Michigan) — Le mille luci del Salone dell’auto sono tornare a splendere in un Cobo Center che, dopo il crollo di una parte del tetto, cinque anni fa, è stato restaurato e ampliato con una spesa di quasi 300 milioni di dollari. Ma basta allontanarsi di pochi isolati per finire nelle strade periferiche, deserte e spesso senza illuminazione, della metropoli fallita che il commissario straordinario Kevyn Orr deve salvare da una situazione spaventosa: 18 miliardi di dollari di debiti che la città non è in grado di ripagare.
Detroit prova a reagire alla crisi nella quale è sprofondata. La capitale dell’auto (è sede della General Motors, mentre anche il quartier generale della Chrysler, presto Fiat-Chrysler, è poche miglia da qui, ad Auburn Hills, così come quello della Ford a Dearborn) sta lavorando alacremente al recupero di molte delle sue aree urbane abbandonate. Come i quartieri residenziali del centro nei quali sono tornati gli uffici e anche un po’ di famiglie, o il Russell Industrial Center: una fabbrica d’auto abbandonata da decenni, divenuta centro commerciale, sede di una comunità di artisti e luogo di eventi. E’ qui che, in un’anteprima del Salone, la General Motors ha presentato domenica il suo nuovo amministratore delegato, Mary Barra, e una nuova gamma di veicoli GMC.
Dal primo gennaio Detroit ha anche un nuovo sindaco – Michael Duggan, il primo bianco da 40 anni a questa parte in una città per l’80 per cento nera – deciso a ripristinare i servizi pubblici (polizia e vigili del fuoco, oltre all’illuminazione) oggi semiparalizzati. Ma di mezzo c’è l’incognita della bancarotta che rischia di lasciare decine di migliaia di anziani e di dipendenti pubblici a fine carriera senza pensione (il «buco» previdenziale è di 3,5 miliardi di dollari), mentre i creditori hanno già fatto fare alla casa d’aste Christie’s una perizia del valore delle opere del Detroit Institute of Arts che potrebbero essere vendute. Una collezione straordinaria fatta di quadri di Caravaggio, Tiziano, Rembrandt, Rubens, ma anche impressionisti come Van Gogh, Degas e Cezanne che rischia di essere polverizzata.
Ora, per evitare questo ulteriore impoverimento e questa umiliazione alla città, scendono in campo alcune delle più importanti fondazioni filantropiche americane – dalla Fondazione Ford alla Kresge e alla Knight Foundation – che si sono solennemente impegnate a versare 330 milioni di dollari per evitare che i dipendenti pubblici della città subiscano forti tagli delle pensioni e scongiurare lo smembramento del museo d’arte. L’iniziativa, coraggiosa e senza precedenti, è stata presa su sollecitazione del giudice distrettuale Gerald Rosen che, chiamato ad applicare le pesantissime sanzioni previste in caso di bancarotta di un’intera città, ha invitato Miriam Noland, la presidentessa della Community Foundation for Southeast Michigan, a prendere l’iniziativa. La Noland si è subito messa a caccia di benefattori e in poco tempo ha messo insieme impegni per 330 milioni di dollari: una cifra enorme, anche se lontanata dai 3,5 miliardi del buco previdenziale e inferiore anche alla stima del valore stimato delle opere del museo d’arte acquistate con soldi pubblici.
Con 100 mila creditori che si accalcano nel tentativo di recuperare i loro 18 miliardi di crediti, salvare le opere d’arte e i pensionati non sarà affatto facile. Ma la speranza è che nell’America patria delle grandi opere filantropiche, molte altre fondazioni scendano ora un campo per contribuire al salvataggio di Detroit. Città che anche di recente ha attratto iniziativa di beneficenza come quella del capo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, e del finanziere Warren Buffett che nell’autunno scorso hanno messo alcune decine di milioni di dollari in un fondo che cerca di sostenere piccole attività imprenditoriali.
Il lavoro che resta da fare è immane, e non solo per il peso dei debiti: è difficile far funzionare una metropoli nella quale sono rimaste appena 700 mila persone ma ha ancora le dimensioni sterminate (140 miglia quadrate) di quando gli abitanti erano due milioni. Anche qui, però, si sono messi all’opera imprenditori che, se non proprio filantropi, si sono impegnati in un’opera socialmente utile. Come i Pulte, una famiglia di costruttori che si sono reinventati demolitori in una città disseminata da 80 mila costruzioni abbandonate. Demolire costa 8-10 mila dollari per abitazione ma i Pulte, riducendo la trafila burocratica, sono riusciti a dimezzare l’onere. E i risultati di tutti questi sforzi di risanamento cominciano a vedersi: i prezzi delle case, che per molto tempo non avevano fatto altro che precipitare, l’anno scorso sono risaliti dei 41 per cento (da 85 a 120 mila dollari, in media, per un appartamento in un condominio). Ancora pochissimo, ma è un segno di vita.
Massimo Gaggi


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