I dubbi del Quirinale su un riassetto complesso
Magari la considera anche lui quasi inevitabile, ma di sicuro la prospettiva di un rimpasto un po’ lo inquieta. Perché aggiungerebbe altre incognite sul percorso per quel «patto di programma» di cui Palazzo Chigi ha dato annuncio a dicembre e che lui stesso ha evocato nel messaggio di fine anno, investendo il Parlamento — «il solo giudice» — della scelta di avallarlo o di bocciarlo, in questo caso con il rischio che si torni al «vuoto politico» degli inizi del 2013. Insomma, stando al racconto di chi gli ha parlato nelle ultime ore, il presidente della Repubblica sorveglia con comprensibile preoccupazione l’ipotesi che un già non semplice accordo sulle strategie per affrontare i problemi del Paese possa complicarsi con un complesso avvicendamento in alcuni ministeri. Ipotesi che, sulla scia dell’affaire De Girolamo, sembra in concreta accelerazione. Uno scenario forse ormai tutt’altro che virtuale o mediatico, come alcuni esorcisticamente pretenderebbero.
Non si sa se Giorgio Napolitano ne abbia parlato ieri pomeriggio con Matteo Renzi, segretario del Partito democratico e, in tale veste, azionista di riferimento della maggioranza. Secondo l’ufficio stampa del Quirinale, nell’ora e un quarto di colloquio («sereno e costruttivo») i due interlocutori si sarebbero limitati a «uno scambio di idee su prospettive, confronto e iter per la riforma della legge elettorale e per le riforme istituzionali, in attesa della sentenza della Consulta» a proposito del già bocciato «Porcellum». Un modo per lasciar intendere che non sono stati toccati temi che rientrano nell’esclusiva responsabilità del premier e del capo dello Stato. Come appunto accade, a termini di Costituzione, per la nomina dei ministri.
Ora, anche restando alla nota ufficiale, il faccia a faccia ha comunque riguardato questioni delicatissime per le sorti del governo. In particolare il nodo sul sistema di voto, destinato ad andare in aula il 27 gennaio e sul quale il movimentista Renzi dovrà adesso decidere con chi vuole davvero lavorare per un’intesa. Chiaro che il presidente auspica un accordo largo e non di basso profilo (quindi non il minimalista «Porcellinum» suggerito da qualcuno giusto per uscire dall’impasse), in grado di garantire governabilità e oggi, sperabilmente, senza intaccare la tenuta della coalizione. Ciò che invece accadrebbe se il leader dei democratici decidesse di cercare una sponda soprattutto con Silvio Berlusconi, come è parso voler fare, tagliando fuori di fatto la neoformazione del vicepremier Angelino Alfano.
Scelte che spetta alla politica prendere e che Enrico Letta dovrà cercar di aggregare con altre decisioni urgenti. Costruire il fatidico «cambio di passo» dipende da diverse variabili, legate in primo luogo a quanto sarà deciso dalla direzione del Pd di giovedì. Il sindaco di Firenze continua a dichiararsi estraneo alle discussioni sul rimpasto, definendole con un tweet «roba da Prima Repubblica, una noia». Mentre il premier, ostentando realismo, sembra rassegnato a qualche cambiamento, purché calibrato e prudente. Disponibile a resettare la sua squadra in due o tre posizioni, non di più. In questo caso, infatti, chiuderebbe la faccenda con un voto di fiducia in Parlamento, senza quella crisi pilotata (da formalizzare con procedure esposte a parecchi rischi) sulla quale ancora ieri si almanaccava a Montecitorio.
Marzio Breda
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