Fare cassa Poste, ecco la privatizzazione truffa

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Nella felicità di Annamaria Furlan, segretaria confederale della Cisl, c’è la sintesi perfetta del disastro che il ministro dell’Economia Saccomanni ha impostato ieri con il via libera alla vendita del 40 per cento delle azioni di Poste Italiane e del 49 per cento dell’Enav, l’ente del traffico aereo.
DI NUOVO NON C’È niente. La privatizzazione delle Poste l’ha annunciata nel 1991 un predecessore di Saccomanni, Guido Carli, con il solito tono “basta chiacchiere, passiamo ai fatti”. La vendita di pacchetti di minoranza, per fare cassa senza smettere di comandare e far rubare, è un brevetto degli esordi della seconda Repubblica. L’Enel è ancora controllato dallo Stato ma è “privatizzato” dal 1999, e già allora con la brillante variante dei dipendenti che si comprano le azioni, indotti addirittura a spendersi l’anticipo del Tfr: le azioni furono piazzate a prezzo stellare (“dobbiamo entrare in Europa”) da un altro predecessore di Saccomanni, l’oggi giudice costituzionale e pensionato di platino Giuliano Amato. Le azioni crollarono subito dopo questa sua frase: “Il prezzo di collocamento non dovrebbe portare a delusioni”. Molti dipendenti Enel hanno poi perso anche il lavoro perché, stando in Borsa, bisogna essere competitivi tagliando gli organici.
Quella delle azioni ai dipendenti è una favola triste. La Cisl si battè come una leonessa, a suo tempo, perchè venissero date le azioni ai dipendenti dell’Alitalia, un’altra società di cui si piazzò in Borsa un pacchetto di minoranza per non ostacolare politici e “portaborse delegati” nei loro furti. Fu l’allora capo della Cgil, Sergio Cofferati, a mettersi di traverso: molti hanno poi perso il lavoro nel disastro Alitalia, ma non i risparmi.
Il fatto è che la Cisl è vocata a comandare nelle aziende statali. Vuoi mettere la oscura fatica di tutelare tutti con la distribuzione di promozioni agli amici? Il premier Enrico Letta annuncia per le Poste la Mitbestimmung alla tedesca, ma c’è sempre stata, con qualche differenza. Su al nord una legge impone che in tutte le società per azioni la metà del consiglio di sorveglianza siano dipendenti eletti dai loro colleghi (e non designati dal sindacato) e senza costringerli a comprare azioni. Alle Poste Giovanni Ialongo, 70 anni, è presidente da cinque anni, nominato dalla Cisl di cui è stato il capo. In forza della Mitbestimmung alla vaccinara era stato prima presidente dell’Ipost, l’istituto previdenziale dei postini. È anche grazie a lui che oggi i contribuenti devono pagare un miliardo all’anno per ripianare il buco dell’Ipost. Una cifra pari ai profitti che Poste italiane fanno da quando l’amministratore delegato Massimo Sarmi ha trasformato le rete di 14 mila sportelli in un grande supermarket della finanza, e i 140 mila dipendenti in consulenti finanziari pagati come postini.
SARMI ARRIVA AL VERTICE nel 2002, in quota Gianfranco Fini, e ha la ricetta del successo. Cala il traffico postale? Riduco i postini. Il servizio postale, con meno postini e meno sportelli, fa schifo? Bene, manderanno meno lettere. Ci sono meno lettere? Taglio ancora. Perché dare un servizio decente, visto che non c’è concorrenza? Sarmi si vanta di essere “il gruppo postale più redditizio a livello europeo”, cosa che suona misteriosa a chiunque veda un ufficio postale. Ma ha un senso. Ieri Saccomanni ha detto che deve “prolungare la convenzione con la Cassa Depositi e Prestiti”. É il momento magico. Anche quando privatizzarono le autostrade allungarono le concessioni. Le Poste raccolgono ogni anno circa 45 miliardi di risparmio postale per la Cdp. Per il disturbo Sarmi prende 1,6 miliardi all’anno. Una rendita che adesso va garantita per rendere appetibili le azioni. Fino ad ora gli utili restavano allo Stato. Adesso, invece, per incassare 4-5 miliardi (pochi, maledetti e subito che ridurranno il debito pubblico dello 0,45 per cento), bisogna promettere ai mitici privati di continuare per sempre a peggiorare il servizio postale e a spolpare l’azienda. Per dare il dividendo ai fondi pensione americani.


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