F-35, l’illusione dei posti di lavoro

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Hanno promesso il cielo, ma potrebbe essere solo una costosa illusione. L’ultimo attacco contro l’F-35, il supercaccia adottato anche dall’Italia, viene dallo studio del Center for International Policy: un lungo dossier che contesta le ricadute occupazionali del progetto militare più esoso della storia. E così ripropone un tema antico, che riguarda strettamente anche il nostro paese: quale è il beneficio sull’economia determinato dagli investimenti bellici?

Le conclusioni della ricerca sono chiare: la Lockheed Martin, azienda responsabile del progetto, sostiene che l’F-35 farà nascere 125 mila posti di lavoro, mentre in realtà saranno meno della metà. I ricercatori credono che si arriverà al massimo a 50-60 mila. “Gli slogan sul supercaccia come job generator sono stati l’ultima istanza per sostenere un programma afflitto da aumenti di prezzo, problemi tecnici e gli interrogativi sulla necessità di una macchina simile in un mondo in cui i combattimenti aerei tra jet rivali sembrano sempre più una forma obsoleta di guerra”.

Stando al documento, dei 125 mila posti indicati dalla Lockheed solo 32.500 sono legati alla costruzione del velivolo, mentre gli altri 93 mila nasceranno nell’indotto d’ogni genere. L’unico studio scientifico sulle ricadute degli investimenti militari – condotto da Robert Pellin e Heidi Garrett Pellier dell’Università del Massachusetts – valuta che per ogni miliardo di dollari speso dal Pentagono si generino 11.200 posti: un dato che proiettato sul budget del supercaccia dimezza le assunzioni paventate dalla Lockheed. Persino un’altra analisi – finanziata dall’Associazione americana delle industrie aerospaziali a Stephen Fuller della George Mason University – offre una stima delle ricadute occupazionali inferiore a quella fornita dal produttore dell’F-35.

Il dossier poi lancia un’altra bordata contro il supercaccia: lo accusa di servire la “politica del barile di porco”. È il termine che si usa negli Stati Uniti contro la spesa di denaro pubblico assegnata ai collegi elettorali dei parlamentari che fanno approvare gli stanziamenti: un vizio diffuso pure in Italia. Gli analisti del Center for International Policy sono andati a confrontare i siti dove avverrà la produzione dell’F-35 con i distretti di senatori e deputati, evidenziando come i benefici ricadono soprattutto a vantaggio dei loro elettori. I sostenitori più accaniti del programma Lockheed sono eletti dove l’aereo sarà prodotto: nel documento sono elencati nomi e impianti, mostrando quale sarà il loro tornaconto politico.
L’ultimo capitolo setaccia i finanziamenti concessi dalle aziende coinvolte nell’F-35 ai parlamentari che hanno sostenuto il programma: oltre 11 milioni di dollari in due sole campagne elettorali. E stiamo parlando soltanto dei contributi per le spese di propaganda, che negli Usa sono censiti in totale trasparenza, senza considerare le sponsorizzazioni di eventi. Anche in questo caso, il rapporto pubblica nomi e cifre.

E l’Italia? Dal rapporto si evidenzia solo un dato, tutto sommato positivo: il nostro paese ha il maggior numero di aziende non americane interessate alla produzione. Sono ben 36, anche se molte avranno un ruolo molto piccolo nell’attività. Le ricadute occupazionali però restano una grande incognita. A fronte di circa 13 miliardi di euro previsti per acquistare 90 supercaccia quanto lavoro pioverà nella Penisola?
La prima stima elaborata dalle nostre forze armate parlava di 10 mila posti con un giro d’affari di 18,6 miliardi di dollari. Un investimento quindi destinato a dare più di quanto spendiamo. La valutazione ruotava intorno al futuro dello stabilimento di Cameri (Novara), dove avverrà l’assemblaggio degli aerei e la cui costruzione è stata gestita direttamente dai militari. L’Italia è l’unico dei partner del programma che ha scelto di realizzare una fabbrica del genere: la Gran Bretagna, che dopo gli Usa ha la fetta più consistente del consorzio F-35– non l’ha ritenuta conveniente.
Invece noi abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo, spendendo 800 milioni di euro per tirare su il complesso piemontese. Con un calcolo a doppio rischio.

L’impianto di Cameri è nato nella convinzione di sfornare almeno 250 jet. Di questi, 131 erano destinati alla nostra Aeronautica e alla nostra Marina, 85 all’Olanda e si contava di ritagliare una quota dei contratti per Turchia e Israele. Ma la spending review ha ridotto a 90 le commesse nazionali mentre gli olandesi finora hanno deciso di comprarne solo 37: gli ordini potrebbe aumentare ma sembra difficile che superino quota 50. Al momento quindi manca un terzo dei velivoli previsti.

Il secondo obiettivo della fabbrica piemontese è quello di intercettare la manutenzione di tutti gli F-35 in volo nell’area mediterranea: oltre ai nostri, quelli di Israele, Turchia e delle basi statunitensi in Europa. Un business sicuramente remunerativo e di lungo periodo, ma per il quale non esistono contratti firmati. E non è detto che le aziende italiane possano offrire prezzi competivi rispetto alla concorrenza straniera.

La Lockheed non si pronuncia su questo punto. Limita la ricaduta per il nostro paese a un totale di 13 miliardi di dollari, di cui solo 9 però sicuri e il resto legato agli sviluppo negli ordini. Dietro queste stime, quanti sono gli italiani che hanno trovato lavoro sulla scia dell’F-35? Mancano dati certi.

A Cameri sono di sicuro meno di mille, ma la produzione è ancora limitata ai primissimi aerei per l’Aeronautica e a una quantità ridotta di ali che Finmeccanica fornirà all’intero programma. E forse prima di stanziare altri miliardi, sarebbe il caso di fare chiarezza su questo argomento chiave. Evitando il rischio di tirare su altre cattedrali nel deserto, come è accaduto troppo spesso nella storia recente del nostro paese: impianti faraonici che non hanno mantenuto le promesse, divorando invece risorse fondamentali per il futuro di tutti.


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