Etnopower La riconquista dell’America

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Anzi, di alcuni di loro. Quelli che vengono da un retroterra più povero e che hanno maggiore voglia di rivalsa: indiani, iraniani, libanesi e cinesi Una tesi che fa ripartire il dibattito sulla razza nel paese di Barack Obama, primo presidente nero degli Stati UnitiNEW YORK Esistono delle “razze superiori” (ma non siamo noi). Indiani, cinesi, iraniani. Ecco alcune minoranze etniche che stravincono, quando gareggiano nello stesso campo di gioco: l’American Dream. Dobbiamo cominciare a studiare le loro ricette, almeno per applicarle ai nostri figli, se vogliamo garantirgli un futuro migliore. Gli ingredienti del successo sono identici per tutti i gruppi etnici vincenti, e si riassumono in una “triplice combinazione”: complesso di superiorità, insicurezza profonda, spirito di sacrificio.
È la tesi esplosiva di uno studio di prossima pubblicazione, firmato da due docenti della Yale University. Un libro scottante perché sfida i tabù della società multietnica, affronta temi proibiti nel discorso corrente del “politically correct”. Gli autori sono due celebrità nei loro campi, ambedue appartenenti a minoranze etniche. Lei, la sino-americana Amy Chua, è già nota al pubblico italiano per il suo best-seller sulla Mamma Tigre, in cui spiegò i metodi educativi molto autoritari dei genitori asiatici (partendo dalla propria esperienza autobiografica: è figlia di immigrati cinesi). Lui, Jed Rubenfeld, oltre ad essere suo marito è un autorevole giurista. Come ebreo americano, anche lui conosce per esperienza alcuni tratti tipici delle minoranze di successo. Ma questo saggio, in uscita tra poche settimane in America, non è autobiografico. Stavolta i due autori fanno tesoro di autorevoli ricerche socio-economiche su tutte le minoranze immigrate nel melting pot americano.
E trovano una risposta anche al dilemma che ieri sera Barack Obama ha ricordato nel suo discorso sullo Stato dell’Unione: dov’è finito il Sogno americano?
Prima ancora che scoppiasse la crisi del 2008, gli Stati Uniti avevano subìto un freno nella mobilità sociale. L’America non è più la Terra Promessa di un tempo, dove da una generazione all’altra il miglioramento nel tenore di vita e nello status socio- professionale era quasi certo. Sempre più spesso, chi nasce in una famiglia povera è condannato a rimanere nello stesso ceto anche da adulto.
Amy Chua e Jed Rubenfeld affrontano il tema alla rovescia: andando a cercare quei gruppi per i quali il Sogno è vivo e vegeto. Ci sono minoranze etniche i cui figli sono tuttora protagonisti di un’ascesa fantastica. Gli indiani guadagnano quasi il doppio dell’americano medio: 90.000 dollari l’anno contro 50.000. Seguono gli iraniani, i libanesi, i cinesi. Se si guarda all’interno della componente bianca, una minoranza non etnica bensì religiosa come i mormoni sono caratterizzati da un successo economico strabiliante, il loro piccolo gruppo genera una quantità spropositata di imprenditori brillanti (i proprietari degli hotel Marriott, della compagnia aerea Jet Blue, nonché l’ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney).
Ovviamente, ammettono gli autori, il successo materiale non è tutto nella vita. Ma spesso queste minoranze esprimono talenti anche in altri campi. Gli ebrei americani non sono sovra-rappresentati soltanto nel mondo della finanza. «Pur essendo solo il 2% della popolazione degli Stati Uniti — osserva Rubenfeld — gli ebrei sono un terzo dei premi Nobel americani; un terzo dei giudici della Corte suprema; due terzi dei musicisti che hanno vinto i Tony Award».
La spiegazione più ovvia tende ad attribuire a queste minoranze “una marcia in più” perché arrivano in America con un alto livello d’istruzione. O almeno così si presume. I dati però smentiscono questo luogo comune. Metà degli immigrati dall’India e dalla Cina arrivano qui con un’istruzione modesta. Una ricerca compiuta dalla Russell Sage Foundation nel 2013 dimostra come i figli d’immigrati cinesi, coreani e vietnamiti conoscono una straordinaria mobilità sociale verso l’alto, anche quando i loro genitori sono poveri e semi-analfabeti.
Chua e Rubenfeld hanno fatto un’altra verifica tra gli iscritti alle due scuole pubbliche più selettive di New York, cioè Stuyvesant e Bronx Science. Per entrare in questi ambitissimi licei bisogna passare attraverso una spietata selezione meritocratica, molti sono i candidati, pochi sono gli eletti. Ebbene, nel 2013 il liceo Stuyvesant ha accettato al termine degli esami 9 studenti afro-americani, 24 ispanici, 177 bianchi, e 620 asiatici. Tra i vincitori, ci sono ragazze e ragazzi cinesi i cui genitori lavorano come camerieri nei ristoranti.
Chua e Rubenfeld citano dei dati di fatto inoppugnabili. Ma sanno benissimo di camminare su un terreno minato. «Il semplice fatto di constatare che alcuni gruppi etnici vanno meglio di altri — ammettono i due autori — è sufficiente a provocare un putiferio nell’America di oggi, e le inevitabili accuse di razzismo». Invece la razza non c’entra proprio niente. Andando a guardare all’interno degli stessi gruppi etnici si scoprono infatti delle differenze clamorose. Per esempio, i nigeriani sono solo l’un per cento della popolazione nera degli Stati Uniti e tuttavia sono un quarto dei neri ammessi alla prestigiosa Harvard Business School. E mentre gli ispanici in generale fanno parte delle minoranze “dimenticate” dall’American dream, questo non è affatto vero per i cubani: loro hanno due volte più probabilità di guadagnare ben oltre i 50.000 dollari annui (il reddito medio dei bianchi).
L’altro fenomeno che i due autori mettono in evidenza, è che le minoranze subiscono a loro volta “ascesa e declino”. Quei gruppi d’immigrati che avevano la più elevata mobilità socio-professionale due o tre generazioni fa, non sono gli stessi che oggi vincono la competizione. Vale anche per gli asiatici: una volta arrivati alla terza generazione, cioè ai nipoti d’immigrati, gli stessi cinesi non si distinguono più, hanno risultati accademici uguali alla media nazionale. Dunque non esistono “minoranze modello” il cui successo sia spiegabile con fattori innati, biologici, qualcosa di diverso nel loro Dna.
Sgombrato il campo dalle accuse di razzismo, Chua e Rubenfeld individuano la Triplice combinazione che dà il titolo al loro saggio: “The Triple Package”. Ovvero, come spiega il sottotitolo: «I tre fattori improbabili che spiegano ascesa e declino di comunità culturali in America». Da sottolineare i due aggettivi “improbabili” e “culturali”. Gli ingredienti del successo sono contro-intuitivi, e appartengono ai valori etico-culturali. Il primo è il complesso di superiorità, la certezza di appartenere a un gruppo “eccezionale”. Questo vale per gli iraniani, per i mormoni che si considerano profeti di Dio in terra, per gli ebrei “popolo eletto”, per i cinesi che si considerano portatori di una civiltà superiore. Da solo, però, il complesso di superiorità può essere nefasto, se non è accompagnato dall’ingrediente che lo compensa e lo bilancia: il senso di insicurezza, spesso legato alla miseria originaria dei propri genitori, che crea una pressione psicologica verso il successo. Terzo e fondamentale fattore, è il controllo degli impulsi, ovvero «la capacità di sacrificare i piaceri e le gratificazioni del presente, onde ottenere risultati futuri».
Nel secondo e terzo fattore si ritrovano anche alcuni aspetti della Madre Tigre raccontata da Amy Chua nel suo libro precedente. Tutta la Triplice combinazione, comunque, è agli antipodi della cultura dominante nell’America bianca: permissiva, comprensiva, indulgente verso i figli, sempre ansiosa di sostenere la loro autostima. «L’America nacque come un’intera nazione-outsider — sostengono i due autori — e alle origini la Tripla combinazione fu una caratteristica nazionale». Oggi invece quella parte del paese che non riesce più a inseguire la mobilità sociale e sembra bloccata, deve imparare a scrutarsi dentro per individuare le ragioni di un declino. «La cultura dominante è timorosa di rovinare la felicità dei figli opprimendoli con i divieti o le aspettative eccessive».
La forza dell’America? E’ che continua ad accogliere nel suo seno delle minoranze che la sfidano, la incalzano, la costringono a fare meglio. L’American
dream è vivo e vegeto, in questo senso. Purché lo si cerchi tra quelli che sono arrivati da poco, si considerano molto speciali, ma sanno di doverlo dimostrare senza risparmiarsi.


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