by Sergio Segio | 30 Gennaio 2014 9:37
«Adele sono io», dice Ermanno Rea. Ottantasette anni a luglio, una barba candida lasciata crescere di recente, Rea ha scritto il suo primo romanzo d’invenzione — s’intitola Il sorriso di don Giovanni, edito da Feltrinelli — dopo molti libri in cui la cronaca irrorava la narrazione, da L’ultima lezionea Mistero napoletano, e poi La dismissione, Napoli Ferrovia e La comunista.
D’invenzione, e sorprendente, è anche la scelta di raccontare assumendo i panni di una donna, Adele, seguita nei suoi ardori, nei suoi amori e nel suo lento ritrarsi dai quattordici ai cinquantaquattro anni. Salvo poi stringere nuovamente su un dato primario di realtà: «Adele sono io».
Realtà, cronaca, invenzione, autobiografia. Comunque, letteratura. Rea ha iniziato la carriera di scrittore a quasi settant’anni, conclusa una generosa militanza nel giornalismo d’inchiesta. E si è ritagliato uno spazio personalissimo: il romanzo che racconta non solo come sia andata una storia vera, ma come è lecito immaginare sia andata nelle sue pieghe più riposte e nell’animo dei protagonisti. Verità e verosimiglianza: una scelta che l’ha esposto.
La comunista, per esempio, narra che cosa sia successo dopo Mistero napoletano, quando alcuni ex dirigenti del Pci napoletano anni Cinquanta, sentitisi scorticati da quel libro e dalla rievocazione del suicidio di Francesca Spada, giornalista dell’Unità, gli ingiunsero con insistenza: «Ma dillo che è solo un romanzo. Che hai inventato tutto, che è tutta una finzione…» Anche Il sorriso di don Giovanni è un romanzo sulla letteratura, vista attraverso un’accanita lettrice, Adele appunto, che mescola la propria esistenza con quel che legge: «Il fatto è che io i libri li vivevo dal di dentro», confessa nel romanzo, «spesso m’intrufolavo nelle trame, mi facevo io stessa personaggio dell’intreccio ». E ancora: «A che cosa servono i romanzi se non a spogliarti del tuo piccolo ego per farti assumere il peso di ciò che non ti appartiene ma che, a furia di leggere, si fa carne della tua carne?». Perché, in fondo «i buoni libri moltiplicano la vita».
Adele è lei, dunque?
«In Adele c’è anche la mia piccola, mediocre storia di lettore. Adele ama i libri che ho amato io. Ma lo spunto me l’ha dato l’esperienza, alcuni anni fa, di presidente della Fondazione Premio Napoli. La vissi con entusiasmo, mancavo dalla mia città da non so più quanto tempo. Varammo diversi comitati di lettura e in uno c’era una donna che raccontò di aver cominciato a divorare libri ancora adolescente. Mi appassionai alle storie di lettori in una città che è ai margini di tutto e anche della lettura».
Torneremo su questo. Ma intanto: è stato agevole calarsi nei panni di una donna?
«Le donne sono i personaggi che mi riescono meno peggio. Francesca di Mistero napoletano, per esempio. Che poi ritorna in La comunista…».
…ma qui Adele è l’io-narrante.
«Il gioco mi attraeva, molti maschi sognano di rappresentarsi come donne. E poi il mondo dei lettori è femminile. In quei comitati napoletani i volti femminili erano l’assoluta maggioranza».
In Adele vive anche una parte di Francesca Spada. O no?
«Ci ho pensato solo dopo. È successo quasi involontariamente. Francesca era, come Adele, un’iper lettrice. Il suo comunismo era trasgressivo e in quel mondo diviso dalla Guerra fredda pagò un prezzo altissimo insieme a suo marito. Anche Adele coltiva una spiccata tendenza alla trasgressione, vissuta in molte maniere ma sempre sullo sfondo di una lettura».
Entrambe sono animate da una pulsione missionaria. Francesca la esercita nella politica, Adele con i libri che legge.
«Adele si sente parte di un piccolo esercito, quasi un ordine religioso investito di un ruolo: trasmettere al mondo i messaggi contenuti nei grandi romanzi, la loro bellezza, la loro protesta, persino la loro disperazione».
La letteratura che dà intensità alla vita. Anche il fidanzato di Adele, Fausto, è coinvolto in questa impresa.
«Lui predica la mitezza, il disinteresse di sé. Arriva a pensare che la totale apertura agli altri sia uno strumento ineguagliabile di conoscenza del mondo. Fausto è assimilabile al Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Ma è anche parte della mia biografia, della biografia della mia generazione, in lui riverso materiali che attingo dal pozzo profondo che è in ognuno di noi».
La lettura non è separazione dalla vita. È un acceleratore chimico dei desideri, dice Adele. Che a un certo punto scrive a Italo Calvino, rimproverandogli un’idea della letteratura come surrogato della vita. Anche qui Adele è lei?
«In qualche modo sì. È lontanissimo dalla mia idea di letteratura il fatto che essa possa dissuadere dalla vita attiva. È invece un acceleratore chimico, appunto, che spinge a sfidare l’esistenza oltre le nostre possibilità e capacità, se non altro inducendo uno spirito emulativo nei confronti dei personaggi letterari».
Si ripropongono così la sua biografia, le battaglie politiche degli anni Cinquanta, le passioni culturali e le tragedie di quella stagione. Ma Il sorriso di don Giovanni è ambientato negli anni Settanta: la contestazione, i movimenti studenteschi, il terrorismo, il terremoto in Irpinia e Basilicata. Perché?
«Le vicende di quegli anni le ho vissute intensamente. Ero a Milano e ne scrivevo ogni giorno. La storia di Adele si svolge però in una piccola città dell’entroterra campano, quella che lo scrittore Michele Prisco chiamò la provincia abbandonata, ma che era tutto tranne che una remota enclave, rimasta isolata e indenne ».
Torniamo alla lettura. L’elogio che lei ne fa è l’altra faccia del timore che essa possa diventare del tutto accessoria. Ha davvero ha questa paura?
«È una paura propria del nostro tempo. Che di paure ne alimenta tante. Ammetto che nel romanzo potrei aver dilatato letterariamente un simile scenario.
Ma spesso m’interrogo su che cosa sarebbe il nostro mondo senza la lettura. Come potremmo immaginare la rivoluzione bolscevica senza Gogol e Dostoevskij?».
Questo vale in sede di interpretazione storica. Lei teme sia possibile un mondo senza lettura?
«Non occorre andare tanto avanti con la fantasia. Gli uomini che odiano i libri non si contano. In Italia sono la maggioranza assoluta — lo dicono tutte le statistiche. Ci sono i disarmati, cioè gli analfabeti e i semianalfabeti. E questi ci sono sempre stati. Ma ci sono i consapevoli, cioè i più esecrabili, perché sanno quello fanno».
Come il Pasquale Coppola del romanzo, boss camorrista del quartiere Sanità?
«È una figura estrema. Adele s’imbatte in lui quando cerca di organizzare una festa dei libri in quel rione del centro storico napoletano. Coppola dà il suo assenso aggiungendo che a lui i libri hanno sempre fatto schifo».
Dalla lettura al libro. «Che orrore il libro immateriale», lei fa dire ad Adele. Adele è Ermanno Rea anche in questa circostanza?
«Fatte salve le ragioni di un personaggio letterario, aggiungo che anch’io guardo con sconcerto all’eventualità che il libro come oggetto sia al termine di una storia iniziata nel Cinquecento. Vivo questa possibilità, dall’alto dei miei ottantasette anni, con un senso di perdita. L’ebook non ha peso, profumo, bordi da annotare, va e viene senza occupare spazio nella mia casa, senza potermi redarguire con la sua sola presenza accanto a me».
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IL LIBRO
Il sorriso di don Giovanni di Ermanno Rea (Feltrinelli, pagg. 240, euro 18) Con La dismissione, in uscita da oggi, Feltrinelli inizia a ripubblicare tutti i romanzi di Rea
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