Dalla notte del voto allo streaming Quei mesi terribili di Pier Luigi
«Ho rincorso il mio obiettivo di spalle, come fanno i vogatori». E forse il guaio alla fine è stato quello, nei dieci mesi che hanno trasformato Pier Luigi Bersani da sicuro padrone d’Italia a esodato di Palazzo verso cui qualsiasi sberleffo pareva insufficiente. Il cuore è di simboli pieno, canterebbe il «suo» Guccini. Per lui, il simbolo che tutto s’andava frantumando, e che il suo obiettivo era ormai irraggiungibile, potrebbe essere l’ossimoro assurdo che fu costretto a inventare pur di spiegare l’inspiegabile, la non vittoria, davanti agli occhi lucidi dei suoi, alle cinque della sera, ora romantica dei toreri, martedì 26 febbraio 2013: «Noi non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi».
E un segno, forse perfino più potente, fu, appena un mese dopo, l’umiliazione in diretta streaming per strappare un accordo ai Cinque Stelle che lo portasse a Palazzo Chigi: quasi in ginocchio, lui, che aveva persino riaperto la scuola di Frattocchie, davanti a due apprendisti della politica come Crimi e la Lombardi. «Mai con Gargamella!», aveva ammonito Grillo. E la trattativa nemmeno nacque.
Eppure è probabile che la parabola scendesse già da prima, sì, con la dannata metafora del giaguaro: a saperne cogliere i segni. Ha detto Ilvo Diamanti che il suo è forse l’unico caso di un politico che deve parte del successo al comico che lo interpreta. Tuttavia la vera questione è forse preliminare: se un politico, per guadagnare popolarità, deve imitare il proprio imitatore, e dunque Bersani diventa la macchietta di Crozza e «smacchiare il giaguaro» ne diviene la cifra finale della comunicazione elettorale (con tanto di giaguaro in peluche a Porta a porta di Vespa), beh, è il sintomo che quel leader ha sbagliato il tempo d’entrata in scena. Troppo giovane per stare coi vecchi con cui era cresciuto, troppo vecchio per i giovani che non perdonano chi scimmiotta la giovinezza (si veda l’arrampicata con toscano tra le labbra fino ai contestatori arroccati sul tetto della facoltà di Architettura). Capita alle generazioni di mezzo.
«Sono come Burqa», disse di sé un giorno, e voleva dire Bubka, inossidabile recordman nel salto con l’asta, «prova a rottamarlo quello lì», tiè, alla faccia di tanti ragazzini presuntuosi. «Sembra piuttosto Dorando Petri», commentò il più presuntuoso di tutti, Matteo Renzi, il bambino che si mangiò i comunisti, e che paragonò lo stagionato rivale al piccolo maratoneta italiano, in testa al traguardo di Londra ma talmente stremato da sbagliare verso (ah, i segni…) nel giro finale e, dunque, primo ma non vincitore. «Eri spompo…», incalzò Matteo. «Per te il partito è un taxi», replicò Pier Luigi. Raccontano i suoi che per incontrare Grillo dopo la «non vittoria» Bersani ne avesse agganciato il dentista. E anche quello, a saperlo leggere, parrebbe un segno inquietante per un vecchio ragazzo cresciuto nell’apparato comunista fino a presidente dell’Emilia Romagna e a ministro delle lenzuolate: quale padre nobile del Bottegone avrebbe immaginato un’intesa politica celebrata grazie a un impianto odontoiatrico o a un curettage ?
Figlio del popolo, chiamava pragmaticamente la «Ditta», ciò che fu il gran partito. Eppure neanche la «Ditta», nel giorno della non vittoria, gli aveva risparmiato lo smacco di Bettola: sconfitto al paesello da Berlusconi, battuto persino alla pompa di benzina di famiglia. «È l’unanimità che carica la molla del tradimento», rifletteva lui, nei giorni bui. Ma dev’essere dannatamente difficile resistere a cortigianerie che, vinte le primarie e sul punto di stravincere le elezioni, avrebbero fatto arrossire Napoleone di ritorno dall’Elba. Qualche erinni emergente dalla cerchia del «tortellino magico» lo paragonava a Cary Grant, salvo votargli in dissenso nell’ora del dolore. Un critico non certo dell’ultima ora, Antonio Funiciello, già veltroniano e poi renziano, ha attribuito a Bersani la responsabilità di avere portato in auge la retroguardia dei vecchi Ds e di scoprire il fianco alla propaganda berlusconiana con il forte richiamo identitario a Botteghe Oscure. Tuttavia è paradossale che nessuno come Bersani, nella stagione precedente alla non vittoria, abbia fatto crescere giovani e donne, rinnovando il partito come mai prima.
La corsa al Colle, infine, ultimo sorso di fiele: la «Ditta» spaccata, balcanizzata tra correnti e franchi tiratori, il siluramento di Prodi dopo un’ovazione da giuda. I militanti che bruciano le tessere, «non possiamo morire di tattica!». Basta. È troppo, «troppi traditori tra noi!» Il giorno delle dimissioni, il 20 aprile, lo vedono in lacrime: «E smettiamola con questi telefonini, la politica non si fa a colpi di tweet e di sms». «Bell’ambientino, attorno a mio marito», commenta la moglie-totem, Daniela. Pier Luigi è un uomo solo, ritratto mentre da solo beve birra e medita su come una non vittoria, irrancidendosi, diventi sconfitta. Non c’è dubbio, è l’ora di Matteo. «Matteo ha vinto, ma non usi la clava. Ho più di sessant’anni, e sono a disposizione del partito». La tempra da vogatore lo molla ieri mattina, nel giorno in cui crollano i ponti politici tra i suoi ultimi fedeli e il bambino che l’ha mandato a casa. Chi ama leggere i segni non può non vedere, almeno qui, il segno di quella grandezza inseguita testardamente, fino all’ultimo colpo di remo .
Goffredo Buccini
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