by Sergio Segio | 23 Gennaio 2014 10:44
Nel giorno in cui Xu Zhiyong, 40 anni, avvocato e membro fondatore del Movimento nuovi cittadini viene processato a Pechino, un’inchiesta rivela che la maggior parte dei leader e degli imprenditori più in vista della Cina, da tempo depositano ricchezze e patrimoni su conti correnti nelle banche dei paradisi fiscali. Xu da tempo richiedeva la pubblicazione dei patrimoni dei funzionari cinesi, sapendo così raccogliere ampio seguito, come dimostrato dai tanti attivisti presenti ieri fuori dal tribunale pechinese (nella foto reuters). La risposta del potere cinese è stata la repressione e — nel tempo — il tentativo di trafugare le proprie ricchezze in luoghi distanti da occhi indiscreti, almeno fino a ieri.
In realtà non c’è niente di illegale nei files rivelati dall’imponente lavoro (iniziato nel 2012) del gruppo di giornalisti investigativi dell’International Consortium of Investigative Journalists, network globale del Center for Public Integrity (Icij) Usa, ma è chiaro che il colpo all’immagine di una dirigenza incaponita nella nota campagna anti corruzione contro «le mosche e le tigri» non può che avere un’eco pari a un terremoto nella politica locale. In Cina in questi giorni si fanno i conti di quanto la richiesta di frugalità del presidente Xi Jinping, stia cambiando la modalità di celebrazione del capodanno da parte dei funzionari: meno banchetti costosi, meno regali di lusso, meno mazzette per ricordare gli appalti che partiranno nell’anno del cavallo.
Quanto viene rivelato dai media che hanno pubblicato l’inchiesta, Le Monde e il Guardian, mostra invece che proprio Xi Jinping, il numero uno e principale promotore della lotta alla corruzione, avrebbe il cognato impegnato in una frenetica organizzazione di fuga dei capitali all’estero (Isole Vergini o Samoa, ad esempio). Non è una grande novità da un punto di vista generale: sono anni che si ritiene che dalla Cina, così come Taiwan e Hong Kong, ci sia un flusso di capitali verso l’estero imponente. Diverso è poter utilizzare 2milioni e mezzo di leaks – incrociando nomi e dati — che dimostrano l’esattezza di questo sospetto. E ancora più grave sarebbe il fatto che proprio chi propaganda il Sogno cinese (zhonguo meng), sembra crederci ben poco se è vero che questa fuga di soldi dipende dal tentativo di premunirsi contro eventuali disastri finanziari ed economici del proprio paese.
C’è di più, naturalmente. Un anno e mezzo fa Bloomberg indagò le ricchezze di quello che all’epoca era ancora il candidato alla presidenza, dimostrando la piramide economica che reggeva l’impero milionario di Xi Jinping[1].
Poi fu la volta del New York Times dimostrare con un’inchiesta che gli è valsa il Pulitzer, gli intrighi finanziari dell’ex premier Wen Jiabao[2]. Si trattava di sintomi dell’esistenza di materiale in grado di essere elaborato da qualche esperto cinese, in collaborazione con i giornalisti occidentali. Questo confermerebbe, da un lato un nuovo modo di fare giornalismo investigativo, in network, dall’altro la vulnerabilità di questi «segreti» dei politici cinesi.
Cè infine – a livello di considerazioni generali – un ultimo punto: si tratta di uno scandalo che presumibilmente interesserà per lo più gli addetti ai lavori. Da un lato infatti, rispetto a scandali simili che accadono negli Usa, ci sarà meno interesse mediatico, almeno in Italia, dall’altro il governo e i funzionari cinesi non saranno certo disposti a reagire pubblicamente. Per ora, come capitò a Bloomberg e New York Times, il Partito ha oscurato Le Monde e il Guardian e ha dato l’ordine ai propri media di non parlare dell’inchiesta China Leaks. Come al solito, però, ci sarà da capire che tipo di conseguenze politiche, potrebbero esserci all’interno del Partito.
L’inchiesta — infatti — rivela che ci sarebbero almeno 100mila aziende domiciliate in dieci giurisdizioni offshore; 37mila cittadini tra Cina, Hong Kong e Taiwan avrebbero utilizzato i servizi delle principali banche internazionali (Ubs, Credit Suisse e Deutsche Bank) per depositare le proprie ricchezze su conti segreti.
A essere tirati in ballo parecchi personaggi in vista dell’establishment: dall’ex premier Wen Jiabao, ancora lui, con i due figli citati nell’inchiesta, fino ad arrivare ai parenti di Deng Xiaoping, di Li Peng, dell’ex presidente Hu Jintao. Non mancano imprenditori, come i fondatori del gigante internet Tencent (Ma Huateng e Zhang Zhihong) e la miliardaria Zhang Xin, fondatrice dell’azienda che domina il settore del mattone cinese, la Soho. L’inchiesta insiste sullo stesso tasto: il Partito comunista e l’attuale classe imprenditoriale cinese costituiscono ormai un nucleo indissolubile, oligarchico, legato a doppio filo e che ormai si è sostituito completamente allo Stato. E anche nel sogno cinese di Xi Jinping, per gli attivisti che si oppongono allo strapotere di questa minoranza, sembra profilarsi la sola ipotesi del carcere.
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