by Sergio Segio | 30 Gennaio 2014 15:23
Ma con la consapevolezza che, stretto il patto, cominciano le forche caudine che dovranno tradurlo in legge, a partire dal voto segreto a Montecitorio chiesto dai grillini, che potrebbe far emergere lo scontento di piccoli partiti e minoranza dem. Lo stesso segretario sa benissimo che l’iter parlamentare è pieno di incognite. Per questo non usa toni trionfali né privatamente, né pubblicamente. “Prudenza” per una volta è la parola d’ordine. Non è stata una giornata facile quella del segretario Pd, che è passato dalla preoccupazione alla soddisfazione. Stringere il patto avviato con l’ingresso del Cavaliere nella sede del Pd ha richiesto tutta la sua capacità di trattativa. La notizia che il traguardo è raggiunto si diffonde qualche minuto prima delle 14. Lo stesso segretario su Twitter lo annuncia così: “Adesso sotto con il Senato, le Province, il titolo V. E soprattutto con il Jobs act”. Quando appare al Tg1 delle 20 per dire che bisognerà approvare la legge “rapidissimamente” e che i “tranelli in aula” sarebbero “il colmo”, ha la barba non fatta e la camicia (rigorosamente) bianca un po’ stropicciata.
A ROMA è arrivato ieri mattina presto ed è andato direttamente nella sede del Pd. La nottata, con tutti gli ambasciatori renziani al lavoro, non lasciava presagire nulla di buono, con Forza Italia che continuava a non cedere sulla soglia per accedere al premio di maggioranza al 37%. Al partito il segretario ha allestito una vera e propria war room, con la Boschi, Guerini, Luca Lotti e Roberto Speranza (nelle vesti di capogruppo a Montecitorio, ma anche di rappresentante della minoranza). Passano i ministri Franceschini e Delrio, il capogruppo in Prima Commissione, Emanuele Fiano. È una girandola di telefonate e messaggi. Renzi parla ripetutamente con Berlusconi, Verdini, Alfano, Lupi, Gianni Letta. E per garantirsi la copertura sul 37% anche con Napolitano. Il Cavaliere fino all’ultimo ha cercato di strappare il 36%. Tanto è vero che alle 12 Matteo era atteso all’Anci, al Quirino: non è mai arrivato, troppo delicata la fase finale della trattativa. Che si è stretta poco prima delle 13. La soglia per ottenere il premio di maggioranza al primo turno, dunque, viene portata al 37%, la soglia di sbarramento dei piccoli in coalizione passa dal 5% al 4,5%. Avrebbero voluto il 4%, ma Ncd incassa comunque la possibilità di presentare candidature multiple in più regioni. Entra il salva-Lega, su richiesta di Fi (una clausola di salvaguardia per quei partiti che nel caso ottengano il 9% in tre regioni, potranno ignorare la soglia di sbarramento nazionale). Nessuna modifica sul fronte delle preferenze, nel nome delle quali Cuperlo si è dimesso dalla presidenza del Pd. E richieste da Ncd. “Alfano ha dovuto ingoiare un mattone”, commentava Franceschini con alcuni dei suoi. Nell’accordo finale non entrano neanche le primarie “istituzionalizzate”, ovvero facoltative, ma non per legge. Quelle che il segretario aveva prefigurato ai membri della commissione Affari costituzionali lunedì, quando con una durezza mai vista aveva chiesto il pieno mandato a trattare.
DUNQUE , tutto a posto? Non esattamente. Alle 16:30, Alfredo D’Attorre, uno degli esponenti di spicco della minoranza divisa annuncia lo scontento: “Resta la preoccupazione per una serie di nodi irrisolti, a iniziare dalle liste bloccate”. Poi, annuncia possibili emendamenti in aula. La minoranza Pd a mettere qualche ostacolo ci proverà, anche se non ha la forza politica per far saltare tutto, Ncd non ritira i suoi emendamenti e Sel presenta le prerogative di incostituzionalità. La prima vittima di questa bozza di legge è proprio il partito di Vendola, che al 4,5% non ci arriverà mai. Oggi pomeriggio la riforma viene incardinata in aula. La Commissione convocata ieri notte viene occupata dai grillini. Riconvocata stamattina licenzierà il testo base: gli emendamenti saranno votati dall’Assemblea. Peraltro quelli che devono recepire l’accordo ieri non erano ancora pronti: tradurre “tecnicamente” il patto è piuttosto complicato. Si inizia a votare martedì e si conta di approvare l’Italicum a Montecitorio per la metà di febbraio. I guai veri si presenteranno in Senato. Tra le clausole dell’accordo c’è anche quella che dà al governo il compito di ridisegnare i collegi entro 45 giorni dall’approvazione della legge. Questo potrebbe chiudere la finestra elettorale di maggio. Lo scenario in questo momento dato per più probabile, sia dalla minoranza dem (che lo formula come accusa al sindaco), sia da alcuni dei più vicini al segretario è un Renzi premier a legge fatta. Questo il ragionamento dei più vicini: “Il governo così non si tiene più, non riesce più a far nulla. Letta è praticamente sparito. La soluzione più naturale sarebbe Matteo a Palazzo Chigi. E magari Enrico ministro degli Esteri”. L’interessato smentisce. E dopo aver lavorato tutto il pomeriggio alle riforme successive resta a Roma a vegliare sul Parlamento.
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