Una società sprofondata nella sabbia

by Sergio Segio | 29 Gennaio 2014 18:40

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Mai è stata così grande la distanza tra il popolo e gli dei. È il malin­co­nico grido di allarme che Giu­seppe De Rita e Anto­nio Galdo lan­ciano nel loro ultimo lavoro pub­bli­cato da Laterza (Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha sepa­rato gli ita­liani, pp. 103, euro 14). Gli dei altro non sono che le isti­tu­zioni poli­ti­che: la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva era riu­scita ad avvi­ci­narle al popolo. Anche se scri­vono molto di Europa, il volume non affronta la crisi del pro­getto euro­peo, bensì quella più pros­sima della società ita­liana, segnata dalla reces­sione eco­no­mica, dalla per­dita di cre­di­bi­lità del sistema poli­tico e da una ridotta, se non can­cel­lata, capa­cità di inno­va­zione del sistema pro­dut­tivo. Un qua­dro fosco, che ha tre «scene» pri­ma­rie: l’eclissi della sovra­nità nazio­nale, ormai varia­bile dipen­dente alle deci­sioni prese da orga­ni­smi inter­na­zio­nali, sia che si tratti del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale che della Banca cen­trale euro­pea che della Unione euro­pea; la fine della rap­pre­sen­tanza, che per i due autori è esem­pli­fi­cata dalla tra­sfor­ma­zione dei par­titi poli­tici in realtà auto­re­fe­ren­ziali; il potere indi­scusso del libero mercato.

Nuove dire­zioni

Tre scene «pri­ma­rie» ormai acqui­site dalla sag­gi­stica cri­tica verso il modello «neo­li­be­ri­sta». I due autori, tut­ta­via, le pro­pon­gono al fine di indi­care una via d’uscita dalla crisi incen­trata sulla capa­cità «adat­ta­tiva» degli ita­liani, che come la sab­bia rie­scono a sfug­gire a qual­siasi pre­tesa rego­la­men­ta­tiva e diri­gi­sta dello stato cen­trale. O, all’opposto, che sfug­gono, in quanto arti­giani vir­tuosi, pic­coli impren­di­tori legati al ter­ri­to­rio, lavo­ra­tori auto­nomi o della cono­scenza, alle stra­te­gie del big busi­ness. Una via d’uscita che asso­mi­glia più a un vicolo cieco che a una solu­zione, per­ché il modello ita­liano delle pic­cole imprese, cioè il capi­ta­li­smo mole­co­lare più volte enfa­tiz­zato da De Rita, è andato in pezzi pro­prio per que­sta capa­cità «adat­ta­tiva», sem­pre legata a una con­tin­genza deter­mi­nata pro­prio da quei poteri forti dai quali il capi­ta­li­smo mole­co­lare voleva dif­fe­ren­ziarsi. Una solu­zione, dun­que, che segue sen­tieri già bat­tuti. E già franati.

Le tre scene pro­po­ste dagli autori vanno comun­que illu­strate. Sulla prima De Rita e Galdo non usano mezzi ter­mini. Il pro­cesso di costru­zione dell’Unione euro­pea è com­ple­men­tare alla costru­zione dell’egemonia della vision neo­li­be­rale. Sono stati, quelli alle nostre spalle, gli anni che hanno visto una ces­sione, da parte degli Stati, di parti signi­fi­ca­tive della pro­pria sovra­nità nazio­nale — la poli­tica eco­no­mica e sociale, in primo luogo — a orga­ni­smi sovranazionali.

Le deci­sioni ven­gono quindi prese non dai par­la­menti nazio­nali, ma da isti­tu­zioni tanto lon­tane quanto espres­sioni di logi­che astratte dif­fi­cil­mente con­te­sta­bili e rispon­denti a prio­rità che quasi mai coin­ci­dono con le urgenze del paese costretto a subirle.

La poli­tica viene dun­que vista come un «sistema» alieno rispetto i biso­gni di un paese come l’Italia, men­tre il sistema poli­tico assume le carat­te­ri­sti­che di una oli­gar­chia che si appro­pria della ric­chezza pro­dotta. L’Unione euro­pea è con­si­de­rata un Bee­moth mano­vrato dalle ban­che e dal capi­tale finan­zia­rio che fa terra bru­ciata della costel­la­zione di pic­cole e medie imprese, carat­te­ri­stica fon­dante, per i due autori, la realtà eco­no­mica e sociale italiana.

Dal 2006 in poi, ma la data­zione potrebbe essere ante­po­sta di oltre dieci anni, cioè da quando irruppe sulla scena poli­tica Sil­vio Ber­lu­sconi, l’Italia ha cono­sciuto anche la fase con­clu­siva della scom­parsa dei grandi par­titi poli­tici di massa. Da allora, una «società di sab­bia» come quella ita­liana è stata con­trad­di­stinta dall’aumento dell’astensionismo e dal noma­di­smo elet­to­rale: la scelta del par­tito nell’urna non segue logi­che di appar­te­nenza sociale, ideo­lo­gica, cul­tu­rale, bensì è stata flut­tuante in base a inte­ressi indi­vi­duali di breve periodo. L’unica costante è un dif­fuso popu­li­smo – spa­zio poli­tico occu­pato, prima dalla Lega, poi da Ber­lu­sconi e in tempi più recenti da Beppe Grillo – una disaf­fe­zione alla poli­tica, con­si­de­rata non come gestione della cosa pub­blica, ma come una forma orga­niz­zata tesa a ripro­durre una «casta» attra­verso l’accesso ai finan­zia­menti pub­blici e alla corruzione.

La terza scena pro­po­sta da De Rita e Galdo è il potere del mer­cato e della finanza. La cita­zione dell’aumento delle disu­gua­glianze sociali e di un agire eco­no­mico senza regole si inse­ri­sce nel flusso che ormai ali­menta la sag­gi­stica main­stream. Non è nep­pure una novità il fatto che per fron­teg­giare la crisi eco­no­mica gli ita­liani abbiano eroso i risparmi accu­mu­lati negli anni, né che la fami­glia, rite­nuta il cen­tro della vita sociale, abbia cono­sciuto una pro­fonda tra­sfor­ma­zione. Cre­sce il numero dei sin­gle; aumen­tano le con­vi­venze, i divorzi, e si espande il feno­meno dei figli che riman­gono in fami­glia ben oltre l’inizio dell’età adulta: è sem­pre la fami­glia a fun­zio­nare come un «wel­fare» nei con­fronti dei gio­vani che non rie­scono ad entrare nel mer­cato del lavoro o che svol­gono un lavoro precario.

In cerca della vita­lità perduta

Dati ormai acqui­siti, ma che non rie­scono ad agglu­ti­narsi per svi­lup­pare un punto di vista cri­tico verso il pre­sente. È que­sto un fat­tore pro­ble­ma­tico che diventa evi­dente quando gli autori descri­vono la ridu­zione della poli­tica a algida ammi­ni­stra­zione dell’esistente, ma che viene repen­ti­na­mente archi­viato quando ele­vano a solu­zione la capa­cità di adat­ta­mento degli ita­liani, testi­mo­niata dall’aumento delle pic­cole imprese regi­strate o delle par­tite Iva. In entrambi i casi, più che segnali di vita­lità del capi­ta­li­smo mole­co­lare sono gli indici di una dif­fu­sione di lavoro pre­ca­rio, sot­to­pa­gato e a basso con­te­nuto di inno­va­zione. È abba­stanza evi­dente che per svol­gere un lavoro, la par­tita Iva è una delle poche solu­zioni con­trat­tuali pos­si­bili tra il sin­golo e l’impresa. E che la remu­ne­ra­zione è costan­te­mente al ribasso ormai da anni.

La sab­bia che sfugge dalle mani dei due autori è pro­prio que­sta costante ten­denza al ribasso per il lavoro vivo, indi­pen­den­te­mente dalla forma giu­ri­dica che viene usata. In que­sto caso il ter­ri­to­rio, con le sue reti sociali vischiose, più che risorsa per i sin­goli è il con­te­sto sociale e poli­tico nel quale viene gestito la corsa al ribasso per salari e red­diti, all’interno della cor­nice chia­mata, a ragione, pre­ca­rietà. Del lavoro e dell’esistenza. Quindi non una pos­si­bile leva di rilan­cio eco­no­mico, ma una gab­bia nella quale non si con­tem­plano né for­ma­zione con­ti­nua, né inno­va­zione, né supe­ra­mento delle disu­gua­glianze sociali. Lasciando così intatta quella distanza tra il popolo e gli dei, visto che anche in que­sto caso la poli­tica è sem­pre ammi­ni­stra­zione dell’esistente e dispo­si­tivo vin­co­lato agli inte­ressi delle imprese. Inte­ressi a medio ter­mine, senza nes­sun respiro progettuale.

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