La felicità della cultura
E se davvero ci fossimo ridotti come Funes “el memorioso”, che ricordava tutto ma non capiva niente? Il sospetto è avanzato dal nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, che sceglie il personaggio di Borges come emblematico delle dissennatezze presenti (Einaudi, pagg. 110, euro 10). Capace di ricordare ogni dettaglio, anche il più insignificante, Funes però non sa pensare. Le idee generali gli sfuggono. Nella sua mente sovraccarica di elementi infinitesimali, non c’è spazio per concetti compiuti. E che c’entriamo noi con questo prodigioso matto, che «sapeva le forme delle nubi astrali dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle nel ricordo con la copertina marmorizzata d’un libro visto una sola volta»?
C’entriamo eccome, ci dice Zagrebelsky. Questa è la condizione in cui ci conduce il sapere iperspecializzato, suddiviso in competenze differenziate e sempre più piccole, e soprattutto sprovviste di una cornice comune. E a questo ci costringe anche una politica incapace di uno sguardo generale, una politica che risponde alla disgregazione sociale perseguendo l’interesse di ogni minima categoria e rinunciando a un quadro d’insieme. «Le ideologie», scrive lo studioso, «sembrano cose d’altri tempi. Crediamo che ciò sia perché hanno dato cattiva prova di sé, nel secolo scorso. Forse, invece, è perché stentiamo a raffigurare la straordinaria frammentazione sociale in qualche idea complessiva».
Una singolare forma di miopia colpisce il nostro sguardo, che è poi la malattia del “memorioso”. La vista diventa «acuta, acutissima sui particolari», ma «cieca di fronte a ciò che li dovrebbe tenere insieme, cioè a ciò che è generale». Da qui la missione che investe tutti, a partire dagli intellettuali di professione: restituire la vista alla politica. E restituire alla cultura la sua funzione originaria, ossia fungere da collante di una società. Una funzione ribadita anche dalla carta costituzionale, nell’articolo 33, formulato per difenderne l’autonomia dal potere e dal mercato.
Quella del rapporto tra politica e cultura è una lunga e travagliata storia, che è andata esaurendosi in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un divorzio progressivo che ha impoverito la politica, schiacciata sul “giorno per giorno”. E ha messo ai margini la figura del maître à penser, caricaturizzata dallo Zeitgeist contemporaneo in pallone gonfiato o in accademico polveroso, incapace di misurarsi con la cultura di massa. Un nome, quello di intellettuale, che oggi è perfino imbarazzante pronunciare, scrive Zagrebelsky. Ma non è sua preoccupazione riabilitare la categoria, coprotagonista non certo innocente del graduale decadimento. Ciò che sembra stargli più a cuore è “la felicità delle idee”, senza le quali non esiste la libertà dal senso comune e dal conformismo.
Fondata sulla cultura può essere letto anche come un trattato sul piacere delle idee, in un’epoca che sembra farne volentieri a meno. E sulla gioia della conoscenza, in un paese che non ci crede più.
Le idee celebrate da Zagrebelsky non sono però “beni in commercio”. Non si traducono in valore economico. E non sono un fattore produttivo. Qui la sua analisi si distingue dalla nutrita saggistica che combatte l’infelice slogan della destra “con la cultura non si mangia”. Con la cultura certo si mangia, ma non è questo che interessa a Zagrebelsky. Anzi, viene denunciata l’ossessione economicistica con cui oggi, in ogni luogo della geografia culturale, anche a sinistra, si soppesano invenzione e creatività. «Il fine è sempre e solo economico: le idee sono strumentali alla felicità e al benessere che questa ideologia continua a collocare nell’economia della ricchezza di beni materiali». Ne consegue che un’idea incapace di produrre innovazione nel mercato delle merci – ma solo consapevolezza o arricchimento spirituale – di per sé non vale niente. Mentre, proprio sulla base della vivacità delle idee, potremmo stabilire classifiche della felicità: sia per le vite dei singoli, sia per ciascuna collettività.
Pur nella forma del trattato classico – e della riflessione intellettuale – il libro di Zagrebelsky parla dell’attualità. Delle
idee che sono di per sé “divisive” – categoria bandita nella stagione delle larghe intese – e dei governi tecnici, che come gli idraulici possono al più riparare il danno ma non certo incidere sul cambiamento. Degli intellettuali di servizio – al potere, al mercato, ma soprattutto alle personali carriere – e di quelli scettici che tutto comprendono e tutto giustificano, abilissimi nel destreggiarsi tra i vari poteri. Di quelli apocalittici, in attesa del messia (che non arriva mai, e se arriva sono dolori), e degli eterni consenzienti, per paura di restare esclusi dal “cerchio formidabile” di cui parlava Tocqueville. Una ricca fenomenologia dell’intellettuale smarrito che resta quasi sempre innominata, ma non è difficile riconoscervi i vari personaggi del teatrino pubblico.
Ora però si pone il problema: come restituire integrità alla funzione culturale? Qui Zagrebelsky introduce la categoria del “tempo”. «Se la chat e i suoi fratelli appartengono al mondo dell’istantaneità, i libri richiedono durata». Da una parte la comunicazione, dall’altra la formazione. «La comunicazione vive nell’istante, la formazione si alimenta nel tempo». Non una contrapposizione, ma una necessaria integrazione. «Non si costruisce sommando istanti isolati, ma collegandoli in un senso che crea comunanza. Il collegamento è compito della cultura».
E chi l’ha detto che sia un compito facile? «Io voglio che il mio lettore», scrive Petrarca, «pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra e ai soldi». No, il lettore deve concentrarsi sul testo, perché «non voglio s’impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto». Il monito di Petrarca, fatto proprio da Zagrebelsky, vale ancora oggi. Soprattutto oggi. Costanza e dedizione. Tempo e durata. L’unico modo – ci avverte l’autore – per salvarci dalla sindrome di Funes, che pensava di saper tutto mentre era solo un demente.
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