Resta la difficoltà di superare i dubbi dei partiti minori

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Lo spauracchio dei franchi tiratori c’è, né potrebbe essere diversamente. E il numero alto degli emendamenti riflette lo scontento soprattutto dei partiti minori per la soluzione che si sta profilando; l’ostilità del Movimento 5 stelle, e le resistenze meno vistose eppure presenti nelle stesse file della sinistra e di Forza Italia. Il confronto a distanza tra Renzi e il premier, Enrico Letta, è l’apice di tensioni diffuse.
I colloqui avuti ieri dal leader del Pd con l’emissario di Berlusconi, Denis Verdini, e poi col vicepremier, Angelino Alfano, capo del Nuovo centrodestra, lasciano capire che non può prescindere dal principale alleato del governo. Non significa che Renzi è costretto a trovare prima un accordo nella coalizione e poi ad allargarlo al Cavaliere: ha fatto il contrario, e con successo. Ma non può evitare un ultimo passaggio: nel senso che un compromesso con l’opposizione berlusconiana rifiutato da Alfano creerebbe problemi di stabilità; e gli tirerebbe addosso l’accusa di avere scelto il nemico storico del Pd.
Dunque, gli serve il «placet» anche del Ncd. E nonostante le polemiche e l’appello di Beppe Grillo al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, perché blocchi il patto Pd-FI, probabilmente si tratta delle ultime schermaglie in vista dell’intesa e non di una rottura. Sebbene considerata pasticciata e destinata a perpetuare la «nomina» dei parlamentari da parte dei segretari di partito, la legge dovrebbe passare col «sì» anche di Alfano. E secondo Letta, un risultato positivo rafforzerebbe anche il suo governo. «Se si risolveranno i problemi della legge elettorale e del bicameralismo perfetto, il più felice sarei io», ha detto. «Il governo sarà più forte anche nei confronti dell’Ue». Alla minoranza dei Democratici che gli imputa il patto con Berlusconi, Renzi risponde agevolmente di accordarsi con lui sulle riforme, e non di governarci come è stato fatto fino a novembre.
Un margine di cautela, però, va conservato. Il capitolo più insidioso sono le preferenze. Le vogliono le forze che temono di essere schiacciate da un bipolarismo ancora più accentuato. Le chiede Alfano, e lo stesso presidente del Consiglio non le aveva escluse nei giorni scorsi, irritando Renzi e ritrovandosi criticato dal suo ministro per i rapporti col Parlamento, Dario Franceschini. Berlusconi ha messo un veto su qualunque modifica che intacchi il bipolarismo. Ci sono poi il problema della percentuale che fa scattare il premio di maggioranza, e la soglia di sbarramento per eleggere i parlamentari. Alcuni costituzionalisti si sono espressi contro il modello che potrebbe prendere corpo in Parlamento.
«Sono della sinistra radicale», reagisce Renzi, accusandoli di proporre «la legge elettorale della Prima Repubblica, che causava ingovernabilità». Purtroppo, non è che i sistemi successivi abbiano sempre garantito stabilità: la coalizione anomala che guida il Paese oggi lo conferma. Né si può scommettere che la riforma scongiuri un Parlamento spezzato in tre tronconi, come l’attuale; e dunque impossibilitato a formare maggioranze omogenee. La forza di Renzi, però, è di tentare un’operazione evocata per anni. Il Quirinale lo appoggia perché sarebbe anche un segnale distensivo «di sistema». La condizione è che il governo venga puntellato e non affossato. Il fatto che ieri Letta abbia accettato subito le dimissioni polemiche del ministro Nunzia De Girolamo, sembra dire che i margini di manovra di palazzo Chigi sono aumentati e non diminuiti.


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