Siria, l’altolà degli americani «Per Assad non c’è posto»

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MONTREUX (Svizzera) — A metà mattina, il paziente Ban Ki-Moon ha già perso la pazienza. Il ministro degli Esteri siriano sta parlando ormai da 25 minuti. «La devo interrompere», interviene il segretario Onu nel salone con le vetrate vista lago, primo giorno della conferenza vista Siria: «Lei aveva solo sette minuti…». «Non posso dividere il mio discorso — è brusco Walid Muallem —, devo continuare». «Le dò altri due minuti». «Ma io ne voglio altri venti! Lei vive a New York, io in Siria, ho il diritto di dare la versione siriana…». Ban ki-Moon torna all’assalto, l’altro va avanti impassibile. Terzo richiamo: «Concluda!…». «Ancora una frase!…». «Spero mantenga la sua promessa…». «La Siria mantiene sempre le promesse!…». Al minuto 35, Muallem ha finito. Ban Ki-Moon è sfinito: «Questo intervento è contrario a un’atmosfera costruttiva. Spero non si ripeta».
Si ripeterà per tutta la giornata: sedersi al tavolo della pace non serve nemmeno a fermare la guerra delle dichiarazioni e Ginevra 2 comincia peggio di come finì Ginevra 1. «Una discussione così esplicita non sarà nelle tradizioni onusiane — simula ottimismo il ministro Emma Bonino —, ma almeno questo è un dato positivo: le mezze parole non portano da nessuna parte». Le parole grosse portano tutte al solito punto: che cosa fare di Bashar. «Assad non può tenere in ostaggio un intero Paese e un’intera regione, né far parte d’un governo di transizione», apre il fuoco il segretario americano John Kerry. «Nessuno ha il diritto di rimuovere Assad a parte i siriani», gli risponde Muallem. «Tutto quel che dice Assad è bugia — è netto Ahmad al-Jarba, leader dell’opposizione siriana in esilio —: se resta lui, questi colloqui deragliano». L’accordo politico raccomandato da Ginevra 1 appare impossibile, anche se è la Bonino a ricordare che «chi siede qui oggi, è perché s’è già impegnato in quella sede»: proprio mentre parla l’opposizione, a Damasco la tv manda in onda immagini di lealisti ammazzati. E mentre gli oppositori entrano (in ritardo) nel Petit Palace, i jihadisti dalla Siria li accusano di «tradimento». Il resto è retorica che sembra lasciare poco spazio: «Non ho molte speranze che questa conferenza possa sconfiggere il terrorismo, visto che vi partecipano molti Stati che lo sponsorizzano», dice da lontano Hassan Rouhani, il presidente iraniano venuto in Svizzera, sì, ma al vertice di Davos. «I negoziati non saranno semplici, né veloci» (Ivan Lavrov, ministro russo); «la speranza c’è, ma è fragile, e i toni aggressivi di Damasco non aiutano» (Laurent Fabius, ministro francese). Quarantacinque discorsi, 240 delegati, per ora nessun impegno: solo un appuntamento delle parti, annuncia l’inviato Lakhdar Brahimi, per discutere da domani d’un possibile scambio di prigionieri, di qualche tregua locale che faccia passare gli aiuti umanitari.
La musica è questa, dura cambiarla. Nella Miles Davis Hall, dove la città del jazz ha stipato i media, la suona anche la grancassa dell’informazione. Giornalisti siriani che applaudono e fischiano. Dvd, dossier, foto. Attivisti della propaganda. Uno che rimprovera ai delegati d’aver chiesto più democrazia («e allora perché non avete citato l’Arabia Saudita?»). Un altro che quasi mette in fuga il ministro per l’Informazione siriano. Un terzo che aggredisce fino alle lacrime una mezzobusta per i commenti tv contro Assad: «Hanno ammazzato tutti i miei parenti e ora vengono qui a farmi tacere!…». Sul megaschermo c’è Muallem che riprende la parola, dice che in fondo «siamo qui per negoziare». Il secondo discorso dura solo quattro minuti, tre meno del previsto. Ban Ki-moon lo ringrazia, Kerry sorride. A fine giornata, è l’unico risultato.
Francesco Battistini


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