PERCHÉ LE ÉLITE NON SANNO PIÙ COSTRUIRE IL FUTURO

by Sergio Segio | 23 Gennaio 2014 10:14

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È una costante della storia che i generali tendano a combattere la guerra di ieri, non quella che dovrebbero vincere oggi, e il terremoto sociale che l’Italia vive da anni non fa eccezione. Economisti e politici, leader sindacali o degli imprenditori, intellettuali di ogni segno sono spesso scivolati nella trappola tipica delle fasi in cui il tempo impone un’accelerazione. Il rischio è che ognuno si scelga una guerra preferita dagli album del passato e preferisca fingere di combattere quella piuttosto che affrontare la realtà.
Non che sia un fenomeno puramente italiano. Economisti liberal, esecutori testamentari autodesignati di John Maynard Keynes, eredi della scuola austriaca o allievi di quella di Chicago da anni discutono dell’euro come fosse il protagonista della Grande Depressione degli anni ’30 o degli choc petroliferi degli anni ’70. Non la moneta di una società europea frammentata e divisa, ma che ha bisogno di trovare un nuovo compromesso: un punto di equilibrio fra tenuta sociale, consenso politico e innovazione nelle strutture portanti dell’economia.
Combattere le guerre di ieri significa condannarsi a perdere oggi e a Giuseppe De Rita e Antonio Galdo preme metterlo a fuoco nel loro ultimo saggio,
Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani (Laterza). Il sociologo e il giornalista usano i loro strumenti diversi soprattutto per raccontare il fallimento collettivo delle élite nella trasformazione in cui il Paese è precipitato senza averla vista arrivare. Se c’è un gruppo che non ha capito né saputo interpretare ciò che stava accadendo, sostengono De Rita e Gualdo, è proprio quello che doveva esercitare la leadership. “Gli dei”, nella loro metafora, che per l’occasione si sono rivelati divinità tanto vanesie quanto cieche: un tratto comune ai dirigenti di qualunque segno e parte politica e del mondo produttivo, accusano De Rita e Galdo.
Qui gli autori registrano una differenza importante – in peggio – rispetto ad altri momenti spartiacque nei quali leader diversi riuscirono a trasformare una crisi in un punto di svolta. I loro modelli sono De Gasperi e Adenauer in politica, ma colpisce di più il confronto che De Rita e Gualdo tratteggiano fra le élite tecnocratiche in tre fasi decisive nell’Italia del dopoguerra. Il primo esperimento di guida tecnica coincise con la nascita della Repubblica, protagonista una generazione di banchieri ed economisti cresciuti discretamente nel fascismo sotto Beneduce e poi impostisi con altrettanta discrezione con la democrazia: Enrico Cuccia, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Sergio Paronetto o Pasquale Saraceno. «La loro azione fu molto efficace perché, pur esercitando un potere enorme – osservano gli autori – ebbero l’intelligenza di non sovrapporsi ai partiti ma di accompagnarli sotto traccia». Promossa da De Rita e Gualdo anche la seconda grande generazione di tecnici, quella guidata da Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato e Lamberto Dini con la crisi del debito dei primi anni ’90. «La chimica funzionò anche grazie a un messaggio di futuro e non solo di gestione in emergenza del presente», è il giudizio.
Diversa è la valutazione sulla terza stagione “tecnica”, quella impersonata da Mario Monti chiamato nel 2011 a gestire un paese sull’orlo di un catastrofico default. Monti doveva, si legge, «evitare il baratro e gettare le basi per il futuro. Ma se la prima parte della missione può essere considerata compiuta, la seconda si è infranta di fronte a una serie di resistenze e di errori ». La critica a quella che gli autori chiamano “la terza élite” è diretta anche all’establishment della politica e dei ceti produttivi e ciò che viene detto del gruppo di governo di Monti vale, per gli autori, anche per tanti capi partito e leader della rappresentanza sindacale, industriale o corporativa. «La terza élite si è mostrata scollegata dal popolo che governava – scrivono – e incapace di dare un orizzonte in termini di emozioni collettive e di futuro». Ciò vale anche per ciò che ha fatto seguito all’esperimento “tecnico” perché, si legge, «abbiamo bisogno di classi dirigenti che nascano dal basso, cespugli della realtà, e non attraverso i filtri della cooptazione imposta dall’alto».
Il divorzio fra i popolo e i suoi “dei” è così radicale, così distruttivo di quel capitale sociale chiamato fiducia, che De Rita e Gualdo raccomandano ai due fronti qualcosa di simile a una tregua per poi provare a riannodare i fili spezzati. Parte della colpa è nelle diseguaglianze, che concentrano una quota crescente del reddito e dei patrimoni in un numero ristretto di cittadini: non è un fenomeno solo italiano, prodotto dalla tragica inadeguatezza del sistema dell’istruzione e della cultura a seguire la trasformazione delle tecnologie e delle strutture produttive globali. Per questo De Rita e Gualdo puntano l’indice contro lo «spostamento della sovranità verso i gironi opachi e infernali della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato». Non è un’accusa infrequente da quando il mercato ha iniziato a “vendere” l’Italia. Meno frequente è stata l’accusa quando invece il mercato “comprava” a poco prezzo, permettendo che gli squilibri italiani crescessero. Per recuperare sovranità, occorre ridurre il debito che la consegna a coloro di cui poi abbiamo bisogno per finanziarlo: ma questa, ricordano gli autori, dev’essere una decisione di “popolo e dei” insieme. Il resto è ricerca di capri espiatori.

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IL LIBRO Il popolo e gli dei di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo (Laterza pagg. 103 euro 14)

* per un’agitazione decisa dal Comitato di redazione i giornalisti di Repubblica si astengono dalla firma

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