Letta avvisa: così non ci sono le condizioni
ROMA — A Palazzo Chigi circola una metafora: Renzi è un acrobata, Letta lo guarda dagli spalti. Spera il premier che il segretario del Pd non cada, che ai primi applausi ne seguano altri, ma è allarme rosso perché la corda di Renzi, vista da Palazzo Chigi, balla in modo vertiginoso, e soprattutto perché sino a quanto non si chiude il «numero» (ovvero la legge elettorale) l’attività di governo è in sostanza bloccata.
Al netto di una breve apparizione al Tg1 il presidente del Consiglio non parla con i giornalisti da esattamente 30 giorni. In un mese di silenzio ha osservato le mosse di Renzi in modo fiducioso, carico di auspici, talvolta irritato (per gli attacchi personali), comunque sempre convinto che le due strade, la sua e quella del sindaco di Firenze, potessero scorrere parallele: a te le riforme e a me il rilancio del programma. Ieri nello staff di Letta il registro era un po’ cambiato: «Oggi non ci sono le condizioni per la conclusione del contratto di governo!».
Lo spettatore Letta a questo punto sembra allargare le braccia: Renzi ieri lo ha sostanzialmente bloccato rinviando la presentazione del Jobs Act alla prossima settimana; il premier dovrà probabilmente andare a Bruxelles, il 29, senza quel rilancio del programma scritto nero su bianco, che sperava di portare con sé. La conclusione, almeno filtrata dai suoi uffici, è un misto di rassegnazione e preoccupazione: «È al momento inutile discutere di programma e a questo punto anche di rimpasto, un accordo di maggioranza andrà presentato in Parlamento, ma in un clima politico diverso e meno caotico, speriamo vivamente che si concretizzi».
Nel frattempo Letta si consola con alcuni dati. Ieri ha rimarcato i primi frutti della legge di Stabilità: un miliardo di carico fiscale in meno per le imprese, in termini di riduzione degli obblighi di assicurazione Inail, lo slittamento dello stesso obbligo (ridotto negli importi) di 3 mesi, altri 400 milioni per la cassa integrazione. «Fatti, verificabili, concreti», registrano a Palazzo Chigi. Così com’è «un fatto» la prima riduzione del debito pubblico dopo 8 trimestri in crescita. E in questo caso, se c’è una vena di polemica nella rivendicazione, non è solo diretta al segretario del Pd bensì anche al mondo economico, sia imprenditoriale che sindacale, che non è stato tenero nei confronti dell’esecutivo, in questi mesi.
Pur nel distacco mediatico che lo vede assente dal dibattito politico è come se Letta rivendicasse una concretezza sottovalutata: meno appariscente del registro che Renzi ha sposato, ma non meno produttiva. Sperando che «il prodotto» dell’iniziativa del segretario del Pd, colui che ha accostato la parola fallimento all’esperienza di questo governo, alla fine si materializzi e non si perda per strada: il clima nel Pd, il nodo delle garanzie chieste dalla Lega, altri temi rimasti aperti, a questo punto agitano sempre di più il premier. Ha in sostanza un contratto di coalizione già ultimato, almeno nello schema generale, ma non saprebbe che farsene se la strada delle riforme non partisse con il piede giusto.
Della squadra di governo da rilanciare a questo punto si discute con meno pressione. I ministri che vengono dati in bilico sono sempre gli stessi: Nunzia De Girolamo, Flavio Zanonato, Annamaria Cancellieri, mentre affiorano, nel dibattito interno al Partito democratico, anche i nomi di esponenti del mondo economico, come Andrea Guerra, amministratore delegato di Luxottica.
Marco Galluzzo
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