L’odissea dei «dublinati»

by Sergio Segio | 22 Gennaio 2014 7:38

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«Farsi pren­dere le impronte digi­tali, in Ita­lia, per loro signi­fica finire la vita». Mi guarda dritto negli occhi Biniam e rimane in silen­zio. Una pausa lunga, che toglie il fiato. Il suo sguardo con­tiene la voce di migliaia di per­sone, di sto­rie, di vite. Vite che in que­sti anni di lavoro come media­tore cul­tu­rale ha vis­suto come se fos­sero la sua. Biniam è eri­treo. Quando è arri­vato lui, dieci anni fa, in Ita­lia i cen­tri di acco­glienza non esi­ste­vano ancora. Lo incon­tro in via Gior­gio Morandi, al civico 153 di un com­plesso di palaz­zine popo­lari, tra la fine di via Pre­ne­stina e la Pal­miro Togliatti. «In que­sto momento abbiamo 84 per­sone tra ira­niani, libici, siriani, eri­trei, curdi e paki­stani. Oltre all’ospitalità, garan­tiamo assi­stenza medica, legale, sociale e psicologica».

Il Cen­tro A.m.i.c.i. dove Biniam lavora è un cen­tro d’accoglienza molto par­ti­co­lare. Qui arri­vano i «dubli­nati», o «Dublino di ritorno»: quei migranti che si sono spo­stati in un paese diverso da quello in cui sono entrati in Europa e che per l’applicazione del rego­la­mento di Dublino, una volta indi­vi­duati, ven­gono rispe­diti nel paese dove gli sono state prese le impronte digi­tali per la prima volta. Biniam dice che qui «a Gior­gio Morandi» accol­gono però solo i «dubli­nati» più «vul­ne­ra­bili», che sono i minori, le per­sone con pato­lo­gie per cui è neces­sa­ria una cura medica, le fami­glie con un solo geni­tore, le donne che viag­giano sole e i nuclei fami­gliari in cui uno dei mem­bri è malato.

Pen­sare un po’ prima al futuro

«Il pro­getto A.m.i.c.i.», co-gestito da Uni­ver­sità Cat­to­lica e Croce Rossa e finan­ziato dai Fondi euro­pei per i rifu­giati, «è nato per andare incon­tro a que­sta par­ti­co­lare cate­go­ria di richie­denti asilo». Il pro­fes­sor Ema­nuele Caroppo dell’Università Cat­to­lica, diret­tore del pro­getto, mi spiega le ragioni che l’hanno spinto, insieme alla col­lega dot­to­ressa Patri­zia Bro­gna, a per­cor­rere que­sta strada: «Ospi­tare al mas­simo 88 per­sone ci per­mette di per­so­na­liz­zare e velo­ciz­zare ogni inter­vento. Già il giorno dopo il loro arrivo i migranti rice­vono la tes­sera sani­ta­ria e in meno di una set­ti­mana i bam­bini entrano a scuola. In tre mesi rie­scono ad otte­nere la rispo­sta della Com­mis­sione in merito alla richie­sta di asilo. Negli altri cen­tri ci vogliono in media nove mesi! Per que­ste per­sone signi­fica poter comin­ciare a pen­sare al futuro, un po’ prima».

L’incontro con la Com­mis­sione è il momento più deli­cato. Il migrante deve affron­tare gli spet­tri della sua sto­ria. E non è facile. Come per Said. È alto, magris­simo, il volto segnato. Lo incon­tro nel cor­ri­doio. Rimane per tutto il tempo in allerta, come pronto a scap­pare. Mi mostra una foto, l’unica che gli hanno per­messo di tenere. Allunga le mani verso di me: «Le vedi que­ste? Non sono le mie». Se le porta al volto. «Que­sto non sono io». Said quando si guarda allo spec­chio non si rico­no­sce e anche io fac­cio fatica a tro­vare qual­cosa di lui in quella foto. In Paki­stan Said lavo­rava per Save the Chil­dren, inse­gnava infor­ma­tica ai bam­bini. Con il fra­tello ave­vano un nego­zio di com­pu­ter. Ma inter­net per i tale­bani è una minac­cia. Said trova la testa moz­zata del fra­tello davanti alla ser­randa. E il nego­zio è gani­mat, requi­sito in nome di Dio per il popolo.

«Per 41 giorni sono stato pic­chiato e tor­tu­rato con le scosse elet­tri­che». La sto­ria di Said è com­pli­ca­tis­sima, non c’è di mezzo solo l’efferatezza dei tale­bani, ma anche quella dell’esercito paki­stano che ti usa e poi cerca di eli­mi­narti. «Mi dica per­ché non vuole tor­nare nel suo paese d’origine», recita il ver­bale. «Se torno rischio di essere ucciso dai tale­bani, ma que­sto è un pro­blema che hanno tutti. Io ho paura delle tor­ture dell’esercito. Quelli non ti lasciano né vivere né morire!”

La seduta con la Com­mis­sione è lun­ghis­sima. Sfian­cante. Come il viag­gio di Said. Dal Paki­stan all’Iran. 6 notti. Alla Tur­chia. 3 notti. Alla Gre­cia. 17 giorni. Alla Mace­do­nia, alla Ser­bia, all’Austria. Qui la sua richie­sta di asilo non viene accet­tata. «Fini­sco in Ita­lia», anche se non sa spie­gare il per­ché. Prima a Milano, poi a Cro­tone, infine a Roma.

Un caso di patomimia

«Era di com­pe­tenza di Cro­tone, ma lì non sono riu­sciti a capire come trat­tarlo e hanno chie­sto il nostro inter­vento». Il pro­fes­sor Caroppo spiega che improv­vi­sa­mente Said comin­cia a san­gui­nare, perde san­gue ovun­que, da occhi, bocca, naso, orec­chie. Ma Said non sof­fre di nes­sun disturbo di coa­gu­la­zione. La sua è una pato­mi­mia: in pra­tica “mette in scena” i traumi che ha vis­suto e che non rie­sce a espri­mere a parole. Per farlo usa il trucco dei fachiri paki­stani: si feri­sce il tim­pano, aspira il san­gue in gola, si tappa il naso e decom­pri­mendo lo spinge fuori da ogni ori­fi­zio. «Sco­perto il mec­ca­ni­smo, abbiamo comin­ciato ad igno­rare que­ste mani­fe­sta­zioni, fin­ché ha smesso». A quel punto Said comin­cia a tirar fuori i ricordi, ma sic­come sono troppo dolo­rosi lo fa iden­ti­fi­can­dosi con il suo aggres­sore. «Io ho messo bomba! Io ho ucciso!». Poi, durante una seduta, men­tre cerca di rac­con­tare di quando la sua ragazza è sal­tata in aria, scop­pia a pian­gere. «In quel momento Said mi dice: “Dot­tore, è la prima volta che non piango più san­gue ma piango lacrime vere”. Ecco lì ho capito che pote­vamo comin­ciare il vero lavoro di recupero».

Incon­tro la dot­to­ressa Bro­gna al com­plesso dei vil­lini di via Grotte di Torre Rigata, poco fuori la via Tibur­tina. È que­sta la sede che, dalla fine di feb­braio, sosti­tuirà il Cen­tro A.m.i.c.i. e acco­glierà tutti i dubli­nati, non solo quelli vul­ne­ra­bili. «Abbiamo chia­mato que­sto nuovo pro­getto “Arco e Arca” pro­prio per­ché il nostro ruolo è di tra­ghet­ta­tori. Aiu­tiamo i nostri ospiti a recu­pe­rare il senso di fidu­cia che hanno perso negli altri, per spin­gerli di nuovo a muo­versi nel mondo». Saro­ghi però non si vuole pro­prio spo­stare. «Patri­sia, why i must leave my room?». Nel suo inglese sti­rac­chiato quest’uomo minuto chiede per­ché deve lasciare la sua casa. Tra una set­ti­mana verrà man­dato a Latina. Si è libe­rato un posto allo Sprar (che si occupa di seconda acco­glienza). Lì avrà un lavoro e l’aiuto di qual­cuno che nel frat­tempo si occu­perà della figlia. Men­tre ascolta, Saro­ghi ha gli occhi di ter­rore. Fa resi­stenza, vuol lasciare quella cer­tezza appena afferrata.

Mali­heh invece è deter­mi­nata a lasciare l’Italia. Con il marito e la figlia sono scap­pati dall’Iran per que­stioni reli­giose. In Sve­zia sono rima­sti 6 mesi. Ave­vano un appar­ta­mento tutto per loro. «Non come qui». Anche il cibo era buono. «Non come qui». Però la gente in Ita­lia è bella e gene­rosa. Non come in Sve­zia. Ma è lì che è vuole tor­nare, anche per­ché «in Ita­lia per lavo­rare devi sapere la lin­gua» ed è stanca di aspettare.

Poli­zia ita­liana «malissima»

Giu­liette, invece, al com­plesso dei vil­lini ha la sen­sa­zione di vivere in una casa «vera». Suo marito, Bashar, era il diret­tore dell’ufficio legale di una grande mul­ti­na­zio­nale ame­ri­cana. «A Dama­sco ave­vamo 3 auto e un casa di 240 metri qua­dri. Adesso non abbiamo più nulla». «Anche qui, quando siamo arri­vati non c’era niente. Il fri­go­ri­fero e il divano li ho dovuti com­prare dai rom per 20 euro». In Sve­zia, a due ore dall’atterraggio, ave­vano già un appar­ta­mento e una carta di cre­dito con 600 euro. All’aeroporto di Fiu­mi­cino sono rima­sti 3 giorni, dor­mendo sulle pol­tron­cine, senza poter pren­dere i pan­no­lini dalla vali­gia per la bam­bina. Con un panino e una bot­ti­glia di acqua. «Cre­devo che la poli­zia in Siria fosse malis­sima. Quando ho visto quella ita­liana, la poli­zia siriana angeli!».

Biniam dice che quasi tutti sanno del trat­tato di Dublino. Gra­zie al pas­sa­pa­rola. Però par­tono lo stesso per­ché «spe­rano di essere tra i for­tu­nati». Su 100, 70 non ven­gono fer­mati. «Il Rego­la­mento ha l’obiettivo di evi­tare gli spo­sta­menti dei richie­denti asilo dal paese di prima acco­glienza, loro invece hanno l’obiettivo di rag­giun­gere il paese in cui pen­sano di sen­tirsi mag­gior­mente tute­lati». Se non ci rie­scono subito, ci ripro­vano. E Biniam non rie­sce a biasimarli.

Lui qui ha un lavoro, una casa. Ma la sua vita rimane “sospesa”. «Il mio per­messo va rin­no­vato ogni 2 anni. Se voglio tra­sfe­rirmi dai miei fra­telli in Inghil­terra non lo posso fare. Loro dopo 5 anni hanno la cit­ta­di­nanza, io che sono stato il primo a uscire dall’Eritrea non ce l’ho».

Prima di salu­tarci, Biniam mi con­fessa: «Fac­cio il media­tore, dovrei riu­scire a con­vin­cere le per­sone a rima­nere in Ita­lia, ma come posso, se in fondo, qui, sono io il primo a non sen­tirmi accolto».

* Que­sto arti­colo è uno dei lavori finali del corso «Il repor­tage sociale» tenuto da Giu­liano Bat­ti­ston e Mas­simo Loche alla Scuola del Sociale della Pro­vin­cia di Roma

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