by Sergio Segio | 19 Gennaio 2014 9:41
Fervono i lavori per le nuove stazioni della metropolitana di Tehran. Sono aperti cantieri ovunque per le principali fermate del centro da piazza Valy-e Asr a piazza Enghelab. Ma l’intera città ha subito un’evidente trasformazione edilizia: opera del sindaco di Tehran e candidato alle presidenziali del giugno scorso, Mohammed Qalibaf. Nuove arterie, tangenziali e sopraelevate sono spuntate come funghi in pochi mesi, soprattutto nei ricchi quartieri del nord della capitale.
Eppure tutti gli iraniani sono in fermento ora che la Repubblica islamica non è più solo un sistema precario e attaccabile ma una garanzia per la stabilità del Medio oriente. Decine di gru si preparano lungo via Taktavous per abbattere palazzi e ricostruirli dalle fondamenta. Sono decine gli appartamenti promessi dai pochi proprietari del costoso sottosuolo cittadino. Mentre l’enorme moschea Mousallah, i cui lavori procedono da un decennio, inizia ad apparire nei suoi tratti maestosi che fanno presagire possa diventare il futuro mausoleo della guida suprema Ali Khamenei.
«Sull’edilizia si gioca ora lo scontro tra ultra-conservatori dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad e i tecnocrati di Hassan Rohani. Il nuovo governo ha bloccato il conferimento di appartamenti già assegnati a pasdaran e amministratori vicini all’ex presidente», ci spiega Ali Kazemi, attivista politico e sostenitore dei riformisti. Lo stesso sta avvenendo per le concessioni sulla gestione delle risorse idriche di nuovo in mano ai tecnocrati. Secondo Ali, con questa politica del muro contro muro i moderati finiranno per perdere il sostegno degli strati più disagiati della popolazione iraniana. Ma anche tra i riformisti il clima non è migliore: Hussein Moussavi e Mehdi Kharroubi sono ancora agli arresti domiciliari e sotto stretto controllo delle forze di sicurezza. «Prima o poi anche i sostenitori dell’ex presidente Mohammed Khatami abbandoneranno Rohani perché i cambiamenti sono lenti a concretizzarsi», prosegue il politico.
In Occidente si parla di aperture nella società civile egiziana. Sembra che a Tehran si rivivano i primi due anni di presidenza Khatami (1997–2005). Eppure la realtà in Iran è ben diversa. Non c’è segno delle decine di quotidiani che apparivano allora nelle edicole cittadine. I leader dell’opposizione ai domiciliari possono aspettarsi migliori condizioni di prigionia sul modello inaugurato proprio da Rohani verso il grande oppositore dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, Hossein Ali Montazeri, per quasi trent’anni agli arresti domiciliari, fino alla sua morte nella città santa sciita di Qom.
Eppure dei piccoli cambiamenti sono percepibili. Alle porte di Daneshka Tehran (il principale ateneo cittadino) le donne iraniane indossano il loro hejab in maniera sempre più informale, tenendo scoperto quasi l’intero capo. Sebbene nelle aree popolari i lunghi e neri chador non manchino mai, sembrano drasticamente diminuiti negli ultimi anni.
Il promesso alleggerimento dei controlli su Facebook e Twitter non è visibile. A chi volesse connettersi a questi siti proibiti da una qualsiasi postazione internet apparirebbero delle immagini di paesaggi e le spiegazioni in farsi dei motivi che spingono le autorità a bloccare questi mezzi. Le email invece sono facilmente accessibili. Lo stesso succede con i mezzi di comunicazione mainstream europei e statunitensi, bloccati dalle autorità iraniane. Eppure i piccoli siti di giornali stranieri specializzati, tra cui il manifesto, sono accessibili a tutti. È il segreto della lunga vita della Repubblica islamica: opporre in tutti i modi una sorta di resistenza alla modernità e alla ripetibilità standardizzata occidentale.
Non sempre è possibile, e così decine di migliaia sono i giovani che hanno lasciato il paese per studi universitari in Gran Bretagna, Canada e Stati uniti. Per chi resta in Iran, bastano invece dei semplici escamotages. Secondo il ministro della Cultura, Ali Jannati, sono quattro milioni gli iraniani che hanno un account sui social network. Non solo, secondo una ricerca dell’attivista socialista Taghi Azad Armaki, pubblicata dal quotidiano riformista Sharq, il 70% degli iraniani ha accesso a canali satellitari stranieri proibiti.
Nel Caffè Godot di via Enghelab tre donne gestiscono il locale, avvolte nel loro hejab nero, all’esterno un giovane fa la sua piccola donazione nei contenitori gialli e blu delle opere caritatevoli. All’interno del bar, gli avventori sembrano preoccupati soprattutto degli aumenti negli zeri del rial, la moneta locale, per i prezzi arrivati alle stelle a causa delle sanzioni internazionali e della conseguente inflazione.
Eppure l’accordo sul nucleare sembra scongiurare il declino. Secondo la Banca mondiale, il 2014 segnerà una crescita in Iran del 3,2% dopo un anno di recessione. «Crediamo nel cambiamento voluto da Rohani. Sarà forse più lento delle riforme di Khatami, ma forse più efficace, perché (Rohani, ndr) sa come dialogare con i conservatori», ci spiegano Arian e Babak.
I primi effetti del nuovo corso si vedono soprattutto tra le ong. Se restano ancora chiusi i battenti della think tank di Mohammed Khatami «Dialogo tra civiltà», i riformisti possono accontentarsi di nuovi spazi nella società civile. E così fioriscono siti online su temi storici, culturali e diplomatici (come Irandiplomacy), gestiti da personalità politiche vicine all’ex presidente.
A Rasht, città a nord di Tehran e capoluogo del Gilan, roccaforte dei riformisti, tornano le manifestazioni organizzate dalle ong locali. Qui le ragazze viaggiano in bicicletta e indossano hejab scollati. Incontriamo Shirin Parsi, fondatrice di tre ong locali per la difesa dell’ambiente e il sostegno alle donne imprenditrici, ai margini di uno spettacolo organizzato dai volontari della think tank con il coinvolgimento dei bambini della scuola pubblica locale. «Abbiamo iniziato 16 anni fa per fermare l’accumulo di rifiuti per le strade della periferia cittadina e favorire il riciclaggio», inizia Shirin. «Ora aiutiamo le donne ad avviare attività in tutti i campi dall’agricoltura alle nuove tecnologie», aggiunge. È cambiato qualcosa con l’avvento di Rohani? «Ci sentiamo più liberi, negli ultimi otto anni non abbiamo potuto organizzare eventi come questi. Il sindaco ci sta ascoltando e otterremo dei finanziamenti per lavorare al compostaggio dei rifiuti nei villaggi intorno a Rasht. Potremo avviare le donne che vivono ai margini della foresta nel villaggio di Sharf a nuovi lavori manuali», conclude soddisatta Shirin.
In questo antico porto sul mar Caspio, con chiare influenze russe, la gente si affretta tra i palazzi in legno della posta e del governatorato. Nel villaggio di Shanderman incontriamo un gruppo di vecchi sostenitori del partito comunista iraniano, bandito appena pochi anni dopo la rivoluzione islamica del 1979. Il partito si scisse tra i sostenitori del modello russo (Tudeh, i cui eredi pubblicano ancora oggi il periodico Mardom, «Popolo», in Germania) e i seguaci del partito comunista cinese (Tufan). «Continuiamo a vederci sporadicamente ma non partecipiamo alla vita politica del paese se non per contatti informali con i riformisti», assicura uno degli attivisti più anziani.
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