Shalabayeva, la verità del prefetto “Alfano mi disse che quel caso minacciava la sicurezza nazionale”

by Sergio Segio | 9 Gennaio 2014 9:45

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ROMA — Il prefetto in pensione Giuseppe Procaccini, 64 anni, capro espiatorio dell’affaire Shalabayeva, siede a un tavolo d’angolo del Caffé delle Arti, nella Galleria di arte moderna di Villa Borghese. «Ora ho finalmente il tempo per le mostre», sorride. Cita Cicerone («A me interessa più la mia coscienza di ciò che la gente dice di me») , il retore ateniese Isocrate, san Paolo («Ho combattuto una giusta guerra. Ho terminato la corsa. Ho mantenuto la fede») . Si commuove evocando un figlio che la malattia gli ha portato via troppo giovane. Poi si fa affilato. Certosino nel ripercorrere i dettagli di quei giorni della scorsa estate che hanno portato il ministro dell’Interno Alfano, di cui era capo di gabinetto, a un passo dalla sfiducia del Parlamento. Procaccini ha scelto di dimettersi. Alfano è rimasto al suo posto. Ma ora, nel racconto del prefetto, il ruolo del ministro nel caso Shalabayeva è cruciale. Così come si dimostrano false almeno due circostanze accreditate dallo stesso Alfano in Parlamento. Aver sostenuto di non essere stato informato dal suo capo di gabinetto della caccia al latitante. Aver sostenuto di essere trasecolato nell’apprendere dal ministro Emma Bonino, il 2 giugno, che esisteva una “questione kazaka” legata a un’operazione di polizia condotta nel nostro Paese.
Prefetto, perché incontrò al Viminale l’ambasciatore kazako la sera del 28 maggio?
«Non fu una decisione che presi di mia iniziativa. Quella sera, infatti, intorno alle 21.15, 21.20, raggiunsi Alfano a Palazzo Chigi. Dovevo consegnargli alcuni documenti e in quell’occasione il ministro mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perché aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse quindi una cosa cruciale — ricordo con esattezza le parole — Mi disse che si trattava di una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza ».
“Grave minaccia”?
«Esattamente. E per questo motivo decisi di rientrare immediatamente nel mio ufficio. Da lì, chiamai l’ambasciatore il quale, dopo le 22, mi raggiunse al Viminale. Qui, come è ormai noto, l’ambasciatore mi riferì di Ablyazov, della segnalazione dell’Interpol, dell’asserita pericolosità di quest’uomo che definì un noto terrorista e dei colloqui da lui già avuti in Questura, che, per altro, aveva già provveduto alla localizzazione della villa di Casal Palocco e avrebbe condotto di lì a poche ore il blitz».
Perché Alfano aveva maturato l’idea che Ablyazov rappresentasse una “grave minaccia”?
«Non ne ho idea. Non me lo spiegò e io non glielo chiesi».
Ritiene che il ministro avesse parlato con l’ambasciatore?
«Non saprei. È possibile che altri gli avessero riferito della sostanza delle informazioni dell’ambasciatore kazako».
Quando tornò a parlare con Alfano della vicenda?
«Il mattino successivo, il 29 maggio. Lo informai verbalmente della visita notturna dell’ambasciatore, del blitz nella villa di Casal Palocco e del suo esito negativo».
Lo informò del fermo della moglie, Alma Shalabayeva?
«No. E non avrei potuto. Perché a mia volta io ignoravo la circostanza. Il Dipartimento non mi aveva informato».
La mattina del 29, informò Alfano che l’ambasciatore era tornato al Viminale per sollecitare un’altra perquisizione nella villa?
«No. Lo ritenni superfluo. Anche perché quella seconda visita e la sua insistenza mi provocò del fastidio. Che l’ambasciatore per altro avvertì. Si giustificò infatti sostenendo di essere tornato nel mio ufficio solo per ringraziarmi e per lasciarmi in ricordo un calendario kazako e una medaglietta con l’immagine di Astana, la capitale del Paese».
In che occasione riparlò con Alfano della vicenda Ablyazov?
«Il 2 giugno, quando mi riferì del colloquio che aveva avuto con il ministro Bonino e mi chiese di informarmi di quanto accaduto con la signora Shalabayeva. Fu quella la prima occasione in cui appresi che nella vicenda c’erano una donna e sua figlia».
Ebbe la sensazione che Alfano avesse quantomeno collegato la Shalabayeva di cui “nulla sapeva” all’operazione Ablyazov che aveva invece sollecitato?
«Il ministro mi diede l’impressione di aver ricollegato le due vicende. Anche perché erano passati pochi giorni».
Perché lei si è dimesso?
«Il ministro era molto preoccupato. Il Governo era a rischio. E io ho sempre ritenuto che essere un civil servant significhi
anche assumersi responsabilità che magari non sono proprie, ma comunque interpellano la credibilità dell’Amministrazione cui si appartiene».
Alfano provò a convincerla a restare al suo posto?
«La sera del 17 luglio gli consegnai di persona la mia sofferta lettera di dimissioni che lui ritenne di non leggere. Almeno di fronte a me. Mi dispiacque solo come comunicò le mie dimissioni al Senato. Le rese un gesto banale».
Non crede che se l’ordine di procedere su Ablyazov non fosse arrivato da Alfano in questa storia le cose sarebbero andate diversamente? E forse la Shalabayeva non sarebbe mai stata consegnata ai kazaki?
«Ci ho riflettuto a lungo. È possibile che l’input arrivato dall’autorità politica abbia reso tutti più realisti del Re. Alfano era appena diventato ministro e magari qualcuno ebbe paura di essere impallinato per scarsa attenzione o zelo rispetto a una vicenda definita appunto una grave minaccia per la sicurezza pubblica».
Che fine ha fatto il calendario kazako che le ha regalato l’ambasciatore?
«L’ho conservato per un po’. Poi l’ho buttato quando ho traslocato dall’Eur, dove alloggiavo in una casa dell’Amministrazione, al quartiere san Paolo».
E la medaglietta di Astana?
«L’ho regalata. Non ricordo se a un commesso o a un autista».

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