Obama dietro le quinte «Non si fidava di Petraeus e detesta l’afghano Karzai»

by Sergio Segio | 9 Gennaio 2014 9:41

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Un presidente che non crede nella sua stessa strategia in Afghanistan, affiancato da un team di consulenti inesperti e da un vice che sbaglia le valutazioni di politica estera. E’ il ritratto di Obama, di Biden e della Casa Bianca che l’ex capo del Pentagono Robert Gates traccia in un libro di 600 pagine, «Duty: Memoirs of a Secretary at War» (Dovere: memorie di un ministro in guerra) in uscita il 14 gennaio in America. Viene pubblicato mentre la strategia di Obama è alla prova sia in Afghanistan (dove il presidente Karzai ha rifiutato di firmare l’accordo sulle truppe Usa) sia in Iraq (dove Al Qaeda riprende terreno). E benché le lotte intestine nel team del presidente sulla strategia in Afghanistan siano state raccontate da Bob Woodward in «Obama’s Wars», e i rapporti difficili con i generali siano già emersi, quello di Gates è il primo libro del genere scritto da un ministro dell’amministrazione.
Quando Obama, appena eletto, scelse di tenere al suo posto l’ex segretario della Difesa di Bush, Gates offriva un’aura bipartisan e l’esperienza di un veterano al presidente democratico, ma presto «Yoda» (come lo chiamava, in riferimento a «Guerre Stellari», lo staff della Casa Bianca) cominciò a serbare una «furia quieta», come l’ha definita il Wall Street Journal , dietro l’apparente e rinomata calma.
Furia nei confronti del presidente: nel 2009 la vista di un leader che dopo aver inviato altri 30.000 rinforzi era «sempre più scettico, se non convinto che la strategia sia destinata a fallire» portò Gates quasi a dimettersi. «Non si fida del suo comandante (Petraeus ndr), non sopporta Karzai, non crede nella sua strategia e non considera questa la sua guerra. Per lui quel che conta è solo uscirne», concluse nel 2011, poco prima di lasciare l’incarico. Gates prova risentimento soprattutto per «la micro-gestione e le interferenze operative» dello staff della Sicurezza Nazionale nelle questioni militari. E mentre ammira il presidente per una cosa almeno, la decisione di uccidere Osama («una delle scelte più coraggiose cui abbia mai assistito alla Casa Bianca»), sono aspre le critiche nei confronti di Biden («uomo onesto» ma «che ha sbagliato su quasi ogni questione di politica estera e di sicurezza nazionale negli ultimi quarant’anni») e cocente l’offesa patita per mano del consulente Tom Donilon che una volta tentò di dargli ordini.
A Hillary Clinton, nel ruolo di segretaria di Stato, Gates non lesina gli elogi («intelligente, idealista, pragmatica», e — ricorda — infastidita che lo staff di Obama «si prenda sempre il merito»), ma si dice «sbigottito» per averla sentita ammettere che si oppose «per ragioni politiche» all’invio di rinforzi in Iraq. Affermazioni che potrebbero essere usate contro di lei se si candiderà alla presidenza nel 2016.
L’amministrazione ha replicato ieri difendendo il presidente ma soprattutto Biden («Obama si affida ai suoi buoni consigli ogni giorno», ha detto una portavoce), e ha scelto di non colpire l’ex capo del Pentagono, augurandogli invece la completa ripresa da una brutta caduta a Capodanno. Ma in realtà, è Gates a non risparmiare se stesso. Emerge dal libro la solitudine di un repubblicano circondato da democratici, in guerra non solo con la Casa Bianca ma anche con la burocrazia del Pentagono e con i parlamentari «incivili, incompetenti, ipocriti, egoisti» del Congresso. Rispetto alle memorie di McNamara («In Retrospect») dove si confessavano molto più tardi «i terribili errori» nella guerra del Vietnam, e a quelle di Rumsfeld («Known and Unknown»), una resa dei conti con tutti i critici, il libro di Gates sembra un tentativo di mettere a tacere la rabbia e i sensi di colpa. Nessuno dei suoi predecessori, ha scritto il Washington Post , avrebbe detto alle sue truppe «vi voglio bene». Gates lo fece. Mentre la moglie Becky stava a 4000 chilometri sul lago Skagit, ha passato anni a scrivere lettere di condoglianze alle famiglie delle vittime. «Non mi piaceva essere segretario di Stato — confessa ora — La gente non ha idea di quanto detesti questo lavoro».
Viviana Mazza

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