Supplenti. Se insegnare è un’Odissea

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Dicono che la loro è una vita ad ore, anzi una vita a punti. Graduatorie, classifiche, e il sogno di una cattedra che non arriva mai. Precari, supplenti, docenti a “cottimo” laureati e specializzati: nel grande bacino dell’incertezza sono il volto oscuro della scuola italiana, un esercito di migliaia di insegnanti malpagati, sfruttati, senza futuro. Poche settimane fa l’ultima beffa: finito il fondo d’istituto al “Pacetti” di Prato lo stipendio degli insegnanti è stato tirato a sorte, i primi cinque hanno vinto, per gli altri tredici è stato un Natale amarissimo, fino a che il ministero non ha inviato i soldi. Ma la “riffa del supplente” non è una umiliazione nuova: era già accaduto in altre scuole d’Italia, semplicemente nessuno aveva denunciato. Precari con i capelli bianchi, precari da sempre, uno scandalo così grave, 130mila supplenti su settecentomila insegnanti in totale, per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalla comunità europea. Perché ogni anno è peggio, ormai non vengono più nemmeno pagate le ferie, hanno gridato in migliaia a Bologna gli insegnanti a tempo, che ogni estate sperano di vincere la lotteria dell’incarico annuale, e se va male si aggrappano allo spezzatino delle ore di supplenza.

Lucia ogni notte parte alle quattro da Villa Literno per essere in classe a Roma alle 8,30, Simone da tecnico si è improvvisato insegnante di sostegno, Rita a Siena racconta di classi pollaio e ragazzi smarriti. Professione supplente: il paradosso che nessun ministro dell’Istruzione è riuscito a sanare, ma che seppure tortuosamente fa camminare il sistema scuola. Storie di resistenza umana, di paghe da sopravvivenza, di docenti costretti a saettare da una scuola all’altra cercando di rastrellare più ore possibile, tra ragazzi confusi che non sanno più che faccia ha il prof.
Lucia Galassi ha quarant’anni, un’incredibile riserva di ottimismo, e la sveglia che ogni notte suona alle 3,20. «È quando il treno delle 4,30 da Villa Literno si scassa e si ferma in campagna, e ci fanno stare lì, stretti e in piedi come su un carro di bestiame, e fa freddo, che penso che non ce la faccio più, che questa non è vita. Poi miracolosamente arrivo a Roma, raggiungo la scuola, entro in classe, guardo i miei allievi, e dimentico la stanchezza e faccio la maestra, che per me è ancora un mestiere bellissimo…».
Da dieci anni Lucia Galassi, insegnante precaria di scuola primaria di Cancello e Arnone, provincia di Caserta, si alza nel cuore della notte e insieme ad altre decine di colleghi e colleghe si mette in viaggio verso Roma, su treni regionali sporchi, che spesso si rompono e allora, racconta, «il tragitto diventa infinito ». Lucia è riuscita ad avere più supplenze annuali, «ma ricordo quando non avevo l’incarico, partivo nella notte lasciando mio figlio piccolo e mio marito, sperando che nel viaggio qualche preside mi chiamasse, invece arrivavo a Termini e per quel giorno non c’era nulla, o peggio, mi convocavano così tardi che era impossibile raggiungere la scuola… Così prendevo un cappuccino e tornavo a casa, dopo aver buttato la giornata… E mio figlio si era inventato un videogioco in cui bombardava Roma, perché Roma voleva dire la mamma in viaggio».
Nell’esercito dei supplenti le maestre pendolari (nelle primarie sono donne il 90 per cento dei docenti) «Arriviamo già stanche e affrontare una classe elementare è una prova ardua. Ho molte colleghe che si sono fermate, che ci hanno rimesso la salute. Io continuo, è la passione che mi sostiene, le lettere dei miei allievi, l’esperienza nelle scuole difficili di Tor Bella Monaca, il ricordo della ragazza rom che abbiamo portato fino alla terza media, e quando vado al campo a trovarla per tutti sono “la maestra” e nessuno si azzarda a toccarmi la borsa o il cellulare. Niente di eroico, è il nostro sono una storia nelle storie. lavoro, che però da un giorno all’altro può svanire, lasciandoti a mani vuote».
Voci da un mondo dove la certezza è un miraggio, e così la costruzione di una vita, poter chiedere un mutuo, comprare una casa. Simone Bogi, 47 anni, di Siena, la butta sull’ironia e dice che la sigla della sua specializzazione è “Itc”, insegnante tecnico pratico, da lui tradotto in “insegnante a tempo perso”. «Sono precario dal 1986. Pur di lavorare sono andato ovunque, fisica,
impiantistica, informatica, poi la riforma Gelmini ha tagliato i laboratori, per la mia materia sono rimaste pochissime ore, ho provato per la prima volta sulla mia pelle cosa vuol dire la disoccupazione totale. Per sopravvivere mi sono trasformato in insegnante di sostegno, oggi seguo cinque ragazzi disabili ».
Tra le tante beffe della condizione precaria non ci sono soltanto le casse vuote dei fondi d’istituto o il mancato pagamento delle ferie.
L’ultima famigerata riforma della scuola targata Maria Stella Gelmini, accorpando classi e spazzando via materie, non solo ha scaraventato l’istruzione italiana nel fondo delle classifiche Ocse, ma ha tagliato un’infinità di posti di lavoro. «Mi sono appassionato al mio nuovo mestiere: in ognuno di questi ragazzi con ritardi cognitivi ci sono possibilità da sviluppare, ho visto quanto la Rete può aiutarli, ho messo a frutto la mia esperienza nell’informatica. Ma tra poco il mio contratto scadrà, tutto si fermerà di nuovo, per me e per loro…».
L’altra faccia del precariato è questa, il prezzo pagato dagli studenti, che subiscono il turnover di maestri o professori che possono cambiare anche sei o sette volte in un anno. «Mi dispiace abbandonare la mia professione — dice ancora Simone — ma ricomincio con una start up di informatica, pensate che mi darà lavoro una mia ex allieva». Rita Petti, anche lei toscana, racconta che nessuno meglio di un supplente può toccare con mano quanto sia naufragato in Italia non soltanto il sogno di don Milani, ma il progetto stesso di una scuola pubblica e democratica e di livello. «Sono docente di Storia dell’arte, una di quelle materie quasi spazzate via dall’ultima riforma. Forse perché insegniamo ai giovani a capire la bellezza, il senso delle cose, diamo fastidio, anche per la geografia è stato così. Ma io ho scelto di restare nella mia materia, e per mettere insieme uno stipendio decente faccio supplenze in tre scuole diverse. Impossibile un progetto di vita privata ma impossibile anche un progetto didattico: tanto degli studenti, soprattutto se adolescenti non importa nulla a nessuno, sono troppo giovani per votare».
Non ha paura di definire il precariato «un mostro creato per mille interessi differenti» Rita Petti, che ha 48 anni, una figlia e tante estati passate ad aspettare la “chiamata” del provveditorato. «Mi trovo ad insegnare in aule di 35 alunni, accorpate per tagliare cattedre e posti di lavoro. Nelle scuole è tornata la divisione sociale, le classi differenziali: nei tecnici i ragazzi che arrivano da nuclei disagiati, nei licei i figli di famiglie che possono sostenerli e pagare lezioni private. Purtroppo».
E se oltre ad essere precario, il supplente è anche una voce contro, la vita diventa davvero dura. Vittorio Lima ha 52 anni, insegna italiano e latino a Padova, e in una cattedra spera ancora. «Sono in cima a tutte le graduatorie, ho insegnato nelle carceri e negli ospedali, da anni mi viene rinnovato l’incarico nello stesso liceo dove ormai faccio parte stabilmente del corpo docente. Eppure, quando provo a ricordare ai miei colleghi che il nostro compito è quello di formare degli individui, non dei latinisti o dei grecisti bocciando senza criterio, allora si fanno venire in mente che sono un supplente, un precario e dunque per me sarebbe meglio tacere… ».
Piccole miserie di un mondo dove per lavorare bisogna sperare che il titolare di una cattedra si ammali, o la docente di ruolo vada in maternità. E c’è tutta la storia del Sud senza lavoro nelle parole di Maria Pirrotta, 46 anni di Palermo, anche lei prof di Lettere. «Ho viaggiato chilometri per raggiungere le scuole con le supplenze, ho visto condizioni spaventose, edifici fatiscenti, aule dove non c’era nemmeno la lavagna, parcheggi per giovani che aspettano i 16 anni per abbandonare e ingrossare le fila della dispersione scolastica. E su di noi in Sicilia si è abbattuta la scure del ministero. Se non avessero tagliato le cattedre sarei di ruolo già da tempo. Resistere è difficile: ma poi capita una scuola buona, un gruppo di ragazzi che si appassionano alla mia materia, e la voglia di insegnare ritorna. Sembra incredibile, ma è così».


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