L’America plaude all’intesa con Veba È la vittoria del piano di Obama per salvare il colosso di Detroit

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 I GIUDIZI sull’accordo con cui porta a casa il controllo definitivo sulla Chrysler sono largamente positivi. Ma il Wall Street Journal
elenca con puntiglio tutti i punti interrogativi sul futuro del gruppo automobilistico ormai integrato. L’accordo con il sindacato Veba, secondo il quotidiano economico-finanziario “non fa perdere il sonno ai rivali europei, perché Marchionne ha ancora molto lavoro da fare prima che Fiat sia in grado di trarre tutti i vantaggi dalla nuova capacità produttiva globale”. Tra le maggiori incertezze, risalta il fatto che “Fiat dipende troppo da tre paesi, Stati Uniti, Italia e Brasile”, nonché la “scarsità degli investimenti in ricerca e sviluppo”. Su quest’ultimo punto è significativo che la critica del più grande quotidiano conservatore americano riecheggi quella dei sindacati italiani.
L’accordo col sindacato metalmeccanico americano, che cede la sua quota del 41% controllata tramite il fondo pensionistico e sanitario Veba, è anzitutto il coronamento di una felice triangolazione voluta da Barack Obama nel 2009. Criticatissimo dalla destra americana che lo accusava di ordire nazionalizzazioni, Obama nel momento più buio della crisi economica immaginò un intervento pubblico a tempo determinato, con un obiettivo e una tempistica molto chiari. Salvare dalla bancarotta General Motors e Chrysler, limitare i danni sociali, favorire una nuova strategia industriale. Chiamò il sindacato a fare la sua parte con una cogestione di stampo “socialdemocratico tedesco”: sacrifici su buste paga e pensioni, in cambio di una quota consistente di azionariato, e quindi una voce in capitolo sul futuro dell’azienda. Andò in cerca di capitali privati (trovando il socio italiano nel caso della Chrysler), con una condizione precisa: il rinnovamento della gamma produttiva per ridurre le emissioni di CO2e rilanciare l’auto su basi più sostenibili. Oggi il bilancio di quella triangolazione tra governo, sindacati e capitalisti privati, è ottimo. Il contribuente ha recuperato quasi tutti i fondi mobilitati nel 2009. L’industria si è risanata e rilanciata. Il danno sociale è almeno in parte riassorbito. L’occupazione torna a crescere anche nel manifatturiero. Per una volta il “socialdemocratico Obama” ha qualcosa da insegnare agli europei anche sul terreno della gestione delle grandi crisi settoriali, dove l’America si è comportata diversamente dai modelli ultraliberisti del suo stesso passato.
Su Marchionne i giudizi americani sono ambivalenti. Lui viene promosso a pieni voti per l’ingegneria finanziaria: “Astutamente il costo dell’operazione (cioè i 4,3 miliardi di dollari versati al fondo sindacale per ricomprargli la sua quota, ndr) è suddiviso e in parte ricade sulla stessa preda cioè la Chrysler”, osservano gli analisti interpellati dal Wall Street Journal.
E tuttavia l’indebitamento del gruppo resta elevato, “il più alto d’Europa dopo Peugeot”, come risultato di un montaggio che doveva risparmiare risorse dell’azionista originario (famiglia Agnelli). Come spesso accade nelle operazioni d’ingegneria finanziaria che hanno qualche impronta digitale italiana, i capitalisti cercano di minimizzare il ricorso ai propri capitali e al tempo stesso di tutelare un controllo societario. Questo equilibrismo non sarà compatibile a lungo con le due sfide che tutti gli osservatori americani indicano: quella dell’innovazione tecnologica e di prodotto; quella del rafforzamento globale, soprattutto in Cina e altri mercati emergenti. Tutt’e due le sfide richiedono capitali, che la famiglia Agnelli non ha o non vuole mettere al servizio di questo progetto industriale. Per mobilitare risorse nuove in dimensioni adeguate bisogna rivolgersi al mercato e rimettere in discussione gli assetti di controllo.
Nell’analizzare il posizionamento geo-economico del gruppo Fiat-Chrysler, le analisi sono unanimi. Il punto di forza è dato dal mercato Usa. Il punto interrogativo è il Brasile, un paese incappato in recenti turbolenze. Il punto debole è l’Europa, mercato tuttora agonizzante. Qui è inevitabile ricordare che la cura Obama ha funzionato, con quella triangolazione virtuosa Statoprivati- sindacato, anche perché sullo sfondo era in azione un’altra cura, macroeconomica, con la collaborazione decisiva della banca centrale. Grazie a una crescita economica ormai triennale, e alla ripresa della domanda di consumi, gli acquisti di auto sono ripartiti alla grande sul mercato americano. Non c’è aiuto migliore che un governo possa dare ai settori industriali in crisi. Più ancora degli incentivi e degli ammortizzatori sociali — che Obama ha usato con vigore ma a tempo determinato e data di scadenza ravvicinata — il lubrificante della crescita economica generale è il vero segreto di un rilancio industriale riuscito. Governo e banca centrale, azionisti privati, lavoratori: negli Stati Uniti dal 2009 ad oggi ciascuno ha fatto la sua parte per risollevare l’industria automobilistica nazionale da un disastro che allora sembrava irrecuperabile.


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