1914-2014, IL BANCO DI PROVA DELLA SINISTRA
Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico.
La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.
Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista.
Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo
assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.
Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo
in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra.
Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?
Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo.
L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi.
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Sembrava fatta, certa. Appunto, sembrava. Nicoletta Dosio, una delle fondatrici oltre vent’anni fa del movimento No Tav (quando gli attivisti si contavano sulle dita di una mano) doveva essere in lista, in posizione eleggibile, per la Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Una personalità autorevole, già insegnante al liceo di Bussoleno e mai scesa dalle barricate. Doveva. Così non sarà e i «perché» assumono i contorni di un pasticciaccio, a colpi di lettere, malumori e probabili sottovalutazioni.
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