Wto, storico accordo sul commercio Firmata l’intesa su Paesi poveri
ci sono parecchie stime in circolazione, ma è credibile pensare che le regole di scambio approvate possano portare a un aumento del commercio globale di circa mille miliardi di dollari, da 22 a 23 mila, e alla creazione di 20-30 milioni di posti di lavoro, soprattutto nei Paesi più poveri. Non è il risultato più ambizioso che si potesse immaginare, forse: è però quello realisticamente ottenibile, dal momento che da vent’anni non si liberalizzavano gli scambi su basi multilaterali e da 12 si discuteva nell’ambito del Doha Round, un negoziato partito con alti obiettivi ma che fino a ieri non aveva prodotto risultati.
Quello firmato a Bali dopo una cinque giorni di scontri duri tra Paesi — chiamato «Bali Package» — è una piccola parte del pacchetto di Doha. Il direttore generale della Wto, il brasiliano Roberto Azevêdo, nominato lo scorso 1° settembre, ha ristretto i temi da mettere in trattativa a quelli che avevano una chance di essere approvati: con l’obiettivo di tenere aperto il processo di liberalizzazione degli scambi e non dovere registrare un fallimento storico che avrebbe pregiudicato passi successivi e messo in crisi seria la Wto. È in questo senso che l’accordo può definirsi «storico», come lo hanno definito in molti, dal presidente del Consiglio Enrico Letta al commissario europeo Karel De Gucht al nostro negoziatore a Bali, il viceministro Carlo Calenda. In concreto, il testo approvato non entra nell’olimpo dei trattati che hanno fatto storia: è limitato, leggero e obiettivamente non eccitante, «decaffeinato», come l’ha definito l’economista Jagdish Bhagwati. Ma c’è.
Il Pacchetto di Bali si può dividere in tre capitoli. Il più significativo ha l’obiettivo di facilitare gli scambi attraverso la semplificazione delle procedure di import e di export alle frontiere. Per rendere il tutto meno vischioso, meno costoso, più rapido e più incoraggiante. Le misure prese saranno vincolanti per tutti i 159 Paesi, che dovranno intervenire su dogane e burocrazie, anche se in tempi diversi a seconda del loro grado di sviluppo. Un secondo capitolo contiene misure per favorire le esportazioni da parte dei Paesi poveri, compreso un impegno ad arrivare all’eliminazione di tariffe e quote al loro export (ma non ancora nel commercio del cotone). Un terzo riguarda la sicurezza alimentare. Su questo c’è stato un lungo scontro tra quasi tutti e l’India, la quale non intende rinunciare al diritto di accumular alimenti destinati a essere distribuiti ai poveri a prezzi sussidiati, pratica che un po’ tutti ritengono vada superata: alla fine, un compromesso dà a Delhi quattro anni di grazia durante i quali si cercherà di trovare una soluzione. Sul finale della trattativa, Cuba ha poi sollevato — come ha fatto spesso in passato — la questione dell’embargo decennale che gli Stati Uniti le impongono. La questione è stata risolta con l’introduzione di un paragrafo generico sul quale, saggiamente, Washington non si è impuntata.
A questo punto, la Wto ritrova almeno in parte credibilità e ruolo nell’apertura dei commerci su basi multilaterali (cioè su un piede di parità per tutti) e Azevêdo un’autorevolezza che gli dà la possibilità di mettere sul tavolo nuovi dossier di liberalizzazione.
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