by Sergio Segio | 10 Dicembre 2013 16:43
DACIA MARAINI SCRIVE UN ROMANZO PER RACCONTARCI LA VITA DI CHIARA DI ASSISI CHE SEGUÌ FRANCESCO NELLA SCELTA DI VIVERE POVERAMENTE E ALL’ADDIACCIO. È un romanzo scritto in pochi mesi e consegnato all’editore solo nell’agosto scorso e dunque dobbiamo pensare che sia nato sulla suggestione dell’investitura di Papa Francesco (e delle sue prime rivoluzionarie parole )… Ne ho letti altri due che nascono sullo stesso pretesto (Michele Mari e Andrea Carraro) e devo concludere (ma ho anche altre prove al riguardo) che la forza (di proselitismo intellettuale) di questo Papa è davvero straordinaria.
Dacia Maraini è una scrittrice seria e racconta la vita (meglio, la personalità) di Chiara di Assisi certificandola su una quantità di documenti (saggi e testimonianze d’epoca ) rigorosi e di sicuro affidamento. In realtà gli eventi raccontati sono pochi e quei pochi come dati per conosciuti (mi riferisco alla scelta di Chiara di abbandonare tutti i privilegi che l’appartenenza a una famiglia aristocratica le garantiva e consegnarsi alla povertà più estrema dove incontrare Gesù). Il racconto è per intero raccolto sulla santità di Chiara, le sofferenze che decide di patire vestita di un semplice saio e male (spesso niente) nutrita, dedita alla preghiere e al sostegno e conforto delle altre sorelle (che avevano fatto la sua stessa scelta e meno capaci di sopportare la vita dura intrapresa). Ne viene un ritratto davvero notevole, di nessuna concessione pietistica e marcato da segni stilistici severi. Un ritratto che non chiama il lettore alla commozione e lo convoca allo spettacolo (per evitar equivoci meglio alla visione) di una pratica di vita (assunzione di comportamenti) disumana e insostenibile. Cilici, lacerazioni, ferite imposte al proprio corpo ma non per punirsi (come volgarmente si sostiene) ma per raggiungere lo stato di innocenza. E l’innocenza è una condizione gioiosa, di vita piena. È riconquistare lo stato di natura, già posseduto e ora perduto. E allora e qui comincio a allontanarmi dalla lettura della Maraini mi pare del tutto superfluo e improprio questa sua continua interrogazione sul come Chiara e le sue sorelle riuscissero e sopportare tanto dolore e la penosa (forse impossibile) condizione di vita cui si erano condannate. Qui l’autrice rivela l’incapacità di uscire dalla propria condizione di vivente oggi, eleggendola a paradigma su cui misurare la credibilità (la possibilità di comprendere) tutti gli eventi anche i più antichi che ricorrono nel passato (e magari incombono sul futuro).
È che la Maraini non riesce a trattenere (controllare) la sua soggettività cui pure in altri situazioni del romanzo (o capi d’opera) sa rinunciare come quando a proposito della verginità (che a quei tempi nella cultura medioevale era un tabù forse più inviolabile dell’incesto) sapeva tenere a freno preferendole l’occhio oggettivo (della mente) e scriveva che «la verginità era una garanzia di trasmissione dell’eredità. Che nasce con la proprietà della terra. Il bisogno di controllare la fertilità della propria compagna di vita, il bisogno di garantire anche biologicamente i beni famigliari».
L’irruzione della soggettività, al contrario, sfoca (mette fuori foco) il ritratto di Chiara, scolorando la forte definizione, di marca grottesca, cui ha assolutamente diritto. E che consente al lettore di ricavare la commozione che attende da un’opera d’arte (pittorica o letteraria che sia). La forza di Chiara è recuperare la sua condizione primigenia, sottraendola alla corruzione che la socializzazione inevitabilmente comporta e riconsegnarsi al suo stato originario in cui religione e materialità, spirito e corpo sono una cosa sola (la stessa cosa). E se l’una è alta anche l’altro deve essere alto. E l’altezza del corpo in Chiara è le piaghe che si infligge.
La Maraini replicherà che non faccio altro che ripetere la vecchia solfa della riduzione dell’io cui da sempre io delego la possibilità di fare arte (scrittura) oggi. E mi dirà che per questa strada non è possibile sfornare che prodotti secchi anzi in sostanza già bruciati (e immangiabili). Forse (anzi mi auguro) che abbia ragione ma prima dovrà convincermi (dimostrarmi di sapere) che i sentimenti sono idee e non gli umori (il bagnato) delle idee.
Ma c’è un altro aspetto nella Chiara della Maraini che mi ha davvero incantato. È il linguaggio delle testimonianze che le sorelle di Chiara recitano in occasione del processo di beatificazione. «Disse epsa testimonia che la beata Chiara una volta se fece fare una certa veste de coio de porcho e portava li peli e le setole tondite verso la carne. E questa portava nascostamente socto la tonicha de latso». E ancora: «Et ancho ce aggiunse sora Cecilia che con le mane suoie lavava le sedie de le sore inferme, nella quali alcuna volta erano li vermini». Sono soltanto due delle numerose testimonianze rese dalla sorelle nel corso del processo e tutte evidenziano un linguaggio straordinario di concreta asciuttezza che scolpisce più che descrivere nel senso che traccia i contorni delle parole come fossero cose senza privarle del carico di ispirazione che le fa vibrare. E ci conferma la base materiale della cultura medioevale. Sono disegni e fregi incisi con mani ferme immuni da ogni distrazione e pur possibile indugio. Assomigliano a quei memorabili monconi di affreschi che ci sorprendono in alcune decadute chiese colpite dalla erosione del tempo. E che ci fa dire insieme a Dacia: «Quanta letteratura femminile trascurata, nascosta, obliata! Un giorno, ne sono certa, comporremo un’altra storia delle letteratura in cui gli scritti delle donne, cominciando dalle mistiche, saranno messe accanto ai grandi autori considerati oggi i soli classici degni di lettura».
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CHIARA DI ASSISI di Dacia Maraini, pagine 247 euro 17.50 Rizzoli
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