Un mito del ventesimo Secolo e la generazione dei nati liberi

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Ma per molti (non solo) bianchi della generazione di Schalk Van Heerden, per chi aveva vent’anni nei giorni in cui cadde il Muro di Pretoria, questa frase è cucita nella memoria come l’immagine di Nelson Mandela con lo stemma degli Springb ok, la nazionale di rugby per decenni simbolo degli oppressori: con la maglia verde numero 6 del capitano Pinaar, Mandela festeggiò il trionfo ai Mondiali 1995. Una vittoria che sancì la fine dell’isolamento (da Paese paria a nazione faro), una frase che tracciò la via della pacificazione sulla quale 50 milioni di sudafricani camminano ancora oggi: «Mandela aveva imparato l’afrikaans in carcere» ricorda Schalk, quarantenne che vive in un grattacielo in centro Johannesburg, viene da una famiglia di boeri duri e puri, lavora per un gruppo che porta palloni e computer ai ragazzi più disagiati in ogni angolo del Paese che l’arcivescovo Desmond Tutu battezzò «nazione arcobaleno».
A casa Tutu il prigioniero politico più famoso al mondo trascorse la prima notte di libertà dopo 27 anni. Già il mattino seguente l’ex ergastolano rassicurava i bianchi: lasciamo perdere le ferite del passato. Una massima che allora voleva dire riconciliazione e che oggi racconta un pò anche il destino dell’uomo (il superuomo) che l’ha pronunciata. «Wat verby is, is verby»: prima che i polmoni lo tradissero, il sipario si era chiuso da un pezzo sul venerando papà (Tata) dei sudafricani, the old man come lo chiamano i compagni governanti dell’Anc che fino all’ultimo hanno usato il suo volto inespressivo nelle photo opportunity, le finte rimpatriate di partito nel salotto di casa Mandela nel quartiere di Houghton a Johannesburg. In quel salotto la sua vita pubblica si è chiusa una decina di anni fa. «Non cercatemi, mi farò vivo io» scrisse nel 2004. Da quel ritiro l’uomo Mandela non è più tornato. In circolazione è rimasto il simbolo: i ragazzi bianchi e neri che non l’hanno mai visto dal vivo sciamano ai piedi della sua statua nella piazza dello shopping center più chic, i turisti passano in rassegna i suoi sorrisi lungo i murales di Soweto, una Fondazione di amici fidati tiene viva l’eredità morale mentre la famiglia, le figlie a cui non ha mai mostrato molto affetto, già da un pezzo litigano per quella monetaria.
Non si è più fatto vivo. Anche la stagione del potere era stata breve (un mandato presidenziale fino al 1999). Forse anche questo ha tenuto accesa la fiamma del suo mito trasversale. Per i ragazzi che hanno l’età della democrazia, Madiba è un nonno a cui si porta un vago rispetto. Il 40% dei sudafricani è nato dopo il 1994, l’anno delle prime elezioni libere. «Ai bianchi della generazione post apartheid — dice Schalk — non importa nulla della politica, la storia, l’apartheid: roba vecchia di cui non vogliono sentir parlare. Se proprio insisti, ti dicono che Mandela è stato un grande, ha fatto il bene del Sudafrica, che è poi ciò che pensa il 70% dei bianchi in generale». Come ripete al Corriere lo scrittore Wilbur Smith: «Mandela è il più grande africano della storia».
I neri «nati liberi» amano più il calcio che il rugby, a Wilbur preferiscono l’«Isola dei Famosi», ma per Tata Madiba provano la stessa distante venerazione dei bianchi che vent’anni fa tirarono un sospiro di sollievo davanti alle parole concilianti del presunto terrorista (il regime fino all’ultimo temeva «uno scenario iraniano» in cui il galeotto 46664 una volta fuori si sarebbe trasformato in rivoluzionario come l’ayatollah Khomeini di ritorno dall’esilio). «Madiba un’icona dei più giovani? Non esageriamo — ride il dottor Mabila Mdokisi, che segue progetti per i ragazzi emarginati —. I miti dei born free sono semmai il rapper americano Jay-Z o la star del calcio locale Teko Modise. Forse Pistorius, prima che uccidesse la fidanzata. Ma in fondo i ragazzi pensano più ai soldi e allo smartphone che ai miti. E’ la generazione precedente, la mia, dai 21 ai 35 anni a nutrire sentimenti più accesi per il padre della patria». Una fetta, minoritaria ma consistente, «crede che Mandela ha tradito i neri dimostrandosi remissivo con i vecchi padroni», sostiene il dottor Mabila. La stessa ex moglie, Winnie, nel 2010 disse: «Ci ha abbandonato. E’ entrato in prigione da rivoluzionario, è uscito cambiato, accettando un accordo che ha lasciato i neri ai margini della società». Ma il crescere delle disuguaglianze non è imputabile all’old man. Anche se, come ricorda al Corriere lo scrittore Zakes Mda, «la corruzione della politica è cominciata sotto gli occhi (distratti) di Mandela presidente». Anche Mda è convinto che i nati dopo il 1994 non abbiano il dente avvelenato con Madiba, tesi contestata dal commentatore Roy Robins secondo cui i born free, non avendo con lui un debito di riconoscenza, sono nella condizione di rinfacciargli le promesse infrante e la disoccupazione (al 50% tra i più giovani). Altri vedono già the old man sul piedestallo della storia: come sarà ricordato? Per il giornalista e scrittore Allister Sparks, veterano dell’opposizione anti apartheid, Mandela è come Abramo Lincoln per gli americani, un leader che ha superato le barriere di razza e di partito.
Davanti a casa Mandela, una via fino a 20 anni fa abitata da soli bianchi, quando si è diffusa la notizia dell’ultima crisi la gente ha ripreso a deporre sassi con messaggi d’affetto. «Guarisci presto Tata». «Sei il migliore». Tra certe frange estremiste circolano ipotesi apocalittiche sulla «notte dei lunghi coltelli»: morto Mandela i neri scateneranno la vendetta. Una signora vicina di casa di Nelson, la mattina del ricovero, aveva preoccupazioni più normali mentre giornalisti e fans cominciavano a radunarsi: «Speriamo che torni presto, così finirà la confusione qui davanti».


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