by Sergio Segio | 29 Dicembre 2013 9:19
ROMA —La prospettiva di una ripresina senza lavoro preoccupa molto il governo. Non a caso il presidente del Consiglio, Enrico Letta, presentando l’altro ieri la riallocazione di 6,2 miliardi di euro (in parte fondi comunitari che altrimenti si sarebbero persi) a favore di misure per le imprese, la crescita e l’occupazione, ha detto: «Il disagio sociale è la trincea più difficile». Lo stesso governo, del resto, nelle sue ultime previsioni (la nota di aggiornamento del 20 settembre al Documento di economia e finanza) stima per il 2014 ancora un calo dell’occupazione dello 0,1% nonostante un Prodotto interno lordo che dovrebbe tornare a crescere dell’1%, chiudendo la lunga recessione cominciata nel 2008. Questo significa, sottolinea il rapporto della Confartigianato sul lavoro che sarà presentato nei prossimi giorni, che nel 2014 l’occupazione misurata in unità di lavoro a tempo pieno (Ula) scenderà intorno ai 23 milioni e mezzo «ritornando al di sotto dei livelli del 2000», dopo che dal 2008 si sono persi 1.158.000 posti di lavoro: 577 al giorno. Tutto ciò spiega la decisione del governo di dirottare alcuni miliardi su interventi diretti e indiretti di sostegno alla creazione dei posti di lavoro.
«Dobbiamo evitare che con l’uscita dalla crisi aumenti però la disoccupazione di lunga durata, dobbiamo cioè svuotare il bacino delle persone assistite da sussidi che inevitabilmente andranno a scadenza. E questo si può fare solo affiancando alle politiche di sostegno ai disoccupati anche le politiche di formazione e ricollocamento al lavoro», dice Paolo Reboani, presidente e amministratore delegato di Italia lavoro, la società pubblica nata proprio per svolgere questi compiti e che ha già sperimentato forme di «contratto di ricollocamento». Il rischio che si vuole assolutamente evitare è quello che, in seguito alla recente stretta sulla durata e sulle regole di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga (cassa integrazione e mobilità) si abbiano nel 2014 decine di migliaia di persone senza più un sussidio e senza occupazione, una sorta di esercito di esodati del lavoro accanto a quelli già creati dalla riforma delle pensioni.
Di qui la decisione in particolare di dirottare 350 milioni di euro dei fondi comunitari sul Fondo per le politiche attive istituito con la legge di Stabilità ma provvisto di appena 50 milioni per il triennio 2014-2016. Buona parte di questi soldi verranno usati, ha spiegato il ministro della Pubblica amministrazione, Gianpiero D’Alia, per cercare di ricollocare le decine di migliaia di persone (nessuno sa quante siano) impiegate da anni (in alcuni casi il decennio è stato ampiamente superato) nei Lavori socialmente utili (Lsu) e nei Lavori di pubblica utilità (Lpu), in particolare nelle Regioni del Mezzogiorno. Ora queste Regioni «potranno formare e spostare nel settore privato, con una serie di incentivi, una parte di questi lavoratori precari che altrimenti non avrebbero prospettive», dice D’Alia. Che non si nasconde come la novità rappresenti «una sfida culturale» per realtà abituate da decenni di puro assistenzialismo. La ricollocazione, dice Reboani, «finora è stata solo sperimentata, da noi di Italia Lavoro e da qualche Regione come la Lombardia». Che possa funzionare anche in zone depresse della Calabria o della Sicilia è tutto da dimostrare.
Costituito il Fondo dovranno essere emanati i regolamenti per attivare gli strumenti di ricollocamento al lavoro. Si punterà, secondo il presidente di Italia lavoro, sulla trasformazione dell’ammortizzatore sociale in dote per l’azienda che assume, la quale quindi incasserebbe il sussidio residuo, o sulla trasformazione dell’ammortizzatore in un voucher di formazione e ricollocamento da “spendere” presso agenzie pubbliche e private autorizzate.
L’utilizzo del sussidio come dote per le assunzioni è già stato sperimentato con qualche successo in passato, ma non nel caso degli Lsu storici, e non ha mai coinvolto gli ammortizzatori in deroga che sono ora quelli che più preoccupano il governo. Combattuto da un lato dall’esigenza di mettere un freno alla cassa in deroga e dall’altro dalla paura che salti la coesione sociale. Nata come una misura provvisoria nel 2008 per estendere ai piccoli la rete di protezione cucita su misura per la grande industria, la cassa integrazione in deroga ha bruciato finora quasi 6 miliardi di euro: sotto i colpi di una disoccupazione in aumento, ma anche per interpretazioni estensive e veri e propri abusi. Ora il governo ha deciso di mettere un limite: massimo 12 mesi in due anni mobili, cioè non solari ma effettivi a partire dalla prima autorizzazione. Allo stesso tempo andrà a regime l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione che assorbirà il sussidio di mobilità ma durerà molto meno (dal 2016 massimo 18 mesi anziché i 48 ai quali può arrivare ora la mobilità). Il problema è che l’assistenzialismo va a ridursi, ma il ricollocamento non è ancora partito.
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