TALENT ECONOMY

by Sergio Segio | 5 Dicembre 2013 8:58

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Sono pochi gli economisti europei – tantomeno gli italiani – le cui opere fanno “tendenza” e diventano punti di riferimento nel dibattito americano. Il caso di Enrico Moretti è speciale. Economista, 45 anni, docente a Berkeley che è una delle migliori università del mondo, con il suo libro su La nuova geografia del lavoro uscito negli Stati Uniti un anno fa, è diventato un testo celebre, non solo recensito ma continuamente citato sul New York Times e il Wall Street Journal.
Ogni analisi sull’evoluzione recente del mercato del lavoro americano finisce per attingere al suo studio, che ha gettato una luce nuova sui vantaggi competitivi dei poli urbani più innovativi come San Francisco o Seattle. Ne parliamo in occasione dell’uscita della versione italiana, edita da Mondadori, perché le analisi di Moretti hanno qualcosa da dire sui giovani italiani, i loro sbocchi occupazionali, la fuga dei cervelli.
La geografia del lavoro italiana deve scontare diversi handicap rispetto agli Stati Uniti. Come possono i giovani neolaureati italiani approfittare delle opportunità che nascono dai settori innovativi, in un paese che non ha Apple né Google o Amazon?
«I giovani italiani nati dopo il 1970 affrontano uno dei mercati del lavoro più difficili, e non è certo colpa loro. Tuttavia hanno una delle più basse mobilità geografiche nella storia d’Italia. Negli anni Sessanta e Settanta l’Italia era un paese ad altissima mobilità geografica e a spostarsi erano soprattutto i giovani. La mobilità “paga”, spostarsi rende. Se rimani in un’area ad alta disoccupazione, le tue opportunità sono inferiori. Perciò io consiglio ai giovani di investire i due o tre anni iniziali della propria carriera all’estero. L’esperienza all’estero non è una fuga irreversibile, i flussi di andata e ritorno sono diffusi. E non bisogna venire per forza qui in California, si può scegliere Londra, Monaco o Stoccolma. È come aggiungere un altro pezzo di scolarità, ed è più facile farlo a 20 anziché a 40 anni».
Il suo caso personale, di docente a Berkeley, può inserirsi però nel fenomeno della fuga dei talenti dall’Europa verso gli Stati Uniti, un flusso che contribuisce anch’esso a disegnare la nuova geografia del lavoro. Ci hanno provato diversi governi italiani a fermare l’esodo dei cervelli, senza successo. Dal suo osservatorio, quali consigli darebbe?
«È difficile tenere a casa gli scienziati, gli innovatori, la categoria più mobile che esista. Vanno dove trovano non solo le condizioni più stimolanti dal punto di vista economico, ma le più premianti intellettualmente. Per quanto riguarda i talenti nella ricerca universitaria, però, qualcosa si può fare: cambiare l’università italiana in modo che premi i giovani innovativi. Non occorrono riforme enormi per trasformare i sistemi di incentivi accademici. La prova? Alcune università italiane ci stanno riuscendo. Parlo del settore che conosco, l’economia: la Bocconi ormai recluta e promuove esattamente con gli stessi criteri di Berkeley e delle altre grandi università americane. Ma anche Torino, Bologna, Venezia e Salerno sono state capaci di far tornare dei docenti dall’estero. Bisogna allargare queste realtà che sono ancora minoritarie, estendere quei dipartimenti organizzati su basi meritocratiche. Non mancano i talenti italiani all’estero che in condizioni adeguate tornerebbero volentieri, perché hanno un’attrazione affettiva, familiare».
Nella sua nuova geografia del lavoro, a fianco ai casi più noti degli Stati Uniti come San Francisco, quali metropoli europee
emergono tra le “vincitrici”? C’è qualche ingrediente del loro successo che sia esportabile in Italia?
«Londra ha saputo attirare un milione di nuovi abitanti in dieci anni, un fenomeno urbano senza precedenti in Europa, in gran parte fatto di stranieri. Stoccolma, Monaco e Zurigo sono diventate anche loro delle “calamite”. Decisiva è stata la loro capacità di attirare immigrati ad alta scolarità, questo è tra i fattori più importanti per il successo di un’economia regionale. Quasi il 50% della ricerca nella Silicon Valley californiana viene fatta da gente venuta da fuori. L’Italia finora ha avuto prevalentemente un’immigrazione dalla scolarità bassa. Ma non c’è ragione per cui non possa attirare un altro tipo di immigrati: la nostra qualità della vita è un incentivo reale. Questi immigrati non tolgono lavoro a nessuno, anzi lo aggiungono, creano nuova domanda, generano opportunità per i lavoratori nazionali. Poi da noi manca l’accesso al capitale di rischio. Il venture capital ha avuto un’evoluzione, si è specializzato molto su ogni nicchia dei nuovi mestieri. Il giovane italiano che ha idee valide ma non ha una famiglia ricca non sa dove trovare i fondi».
Con le sue analisi sul mercato del lavoro lei dimostra che qui negli Stati Uniti una buona laurea è tuttora un ottimo investimento per il futuro di un giovane. Ma vale lo stesso anche in Italia, dove il sistema universitario si regge su principi diversi, cioè quasi gratuito e meno selettivo?
«Certamente in America la laurea vale di più, se si misura il suo rendimento in differenziali di stipendio. Tra un giovane laureato al suo primo impiego, e un giovane che abbia solo il diploma di secondaria superiore, qui negli Stati Uniti il differenziale di remunerazione in media è dell’80% mentre in Italia è del 40%. E tuttavia studiare all’università ha comunque un senso. Non credo che nel prossimo decennio la creazione di posti di lavoro si concentrerà nelle mansioni meno qualificate. Semmai i giovani italiani dovrebbero informarsi meglio su quali lauree rendono di più. Abbiamo ancora troppi iscritti alle facoltà di legge e scienze politiche, troppo pochi nelle materie scientifiche».
Si parla molto dei segnali aneddotici su una parziale “re-industrializzazione” degli Stati Uniti. Sono solo dei casi isolati, di scarsa rilevanza, oppure potrebbe aprirsi una nuova fase? È illusorio pensare che i paesi di antica industrializzazione possano far rinascere al proprio interno anche una vocazione manifatturiera?
«Non bisogna confondere la ripresa dell’attività manifatturiera con una ripresa degli occupati in questo settore. L’industria americana va bene: se misuriamo la sua produzione in valore (e depurato dall’inflazione) oggi crea il doppio di quello che creava 30 anni fa. Ma lo fa con una manodopera dimezzata per effetto dell’automazione. Chiunque visiti una fabbrica americana la trova quasi vuota di esseri umani: ci sono dentro due o tre persone al computer che controllano le macchine. I posti di lavoro industriali che aumentano sono quelli per ingegneri con laurea e master, non i milioni di tute blu. Ed è esattamente lo stesso fenomeno che sta succedendo in una grande economia industriale come la Germania: la percentuale dei tedeschi occupati nel manifatturiero si è dimezzata dagli anni Ottanta».
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IL LIBRO E L’AUTORE
La nuova geografia del lavoro di Enrico Moretti (Mondadori, traduzione di Luca Vanni pagg. 276, euro 19) Moretti, nato nel 1968, insegna economia all’Università di Berkeley Per la rivista Forbes il suo è il libro di economia più importante dell’anno

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