by Sergio Segio | 24 Dicembre 2013 9:21
Il suo nome è Fethullah Gülen, il teologo musulmano che ha lasciato la Turchia nel 1999 perché inviso ai governi laici di allora e che, rifugiatosi negli Stati Uniti, ha creato una fitta rete internazionale di scuole, think-tank, tv e giornali considerata da molti il più grande network islamico del mondo. Il suo movimento, chiamato Hizmet, che vuol dire «servizio», non ha una struttura formale, né un’organizzazione visibile o un elenco di iscritti. Gülen comunica soltanto con sermoni registrati che vengono diffusi sul suo sito web.
L’obiettivo ufficiale è di «lavorare per il bene comune» diffondendo un messaggio basato sull’altruismo, il duro lavoro e l’educazione nelle zone più disagiate del mondo dall’Iraq al Kazakistan. Di dati ufficiali non ce ne sono ma si parla di più di mille scuole, tutte che brillano per la loro eccellenza, sparse in 140 Paesi. In Kirghizistan, per esempio, il movimento controlla un’università e una dozzina di istituti superiori che sono tra i migliori a livello internazionale. In Pakistan gli studenti beneficiano di laboratori scientifici mai visti. Persino nel Nord dell’Iraq, nonostante la presenza curda, le scuole che promuovono la cultura turca sono ben accette e a loro si aggiungono un ospedale e un’università. Si finanzia grazie alle generose donazioni degli adepti, spesso uomini d’affari affascinati dal predicatore milionario e dalle infinite strade che un’amicizia con lui può aprire.
Nel suo Paese natale, dove ora potrebbe tornare se volesse, si dice che i suoi seguaci occupino posizioni chiave nelle istituzioni: dalla polizia, ai servizi segreti, dalla magistratura al partito di governo, l’Akp guidato da Recep Tayyip Erdogan. Lo stesso presidente Abdullah Gül è considerato molto vicino all’imam. Proprio in questi giorni l’ondata di arresti eccellenti per corruzione, frode e appropriazione indebita, che ha coinvolto anche i figli di tre ministri, è stata considerata da molti osservatori un colpo messo a segno da Hizmet contro le ambizioni di Erdogan dopo che il suo governo aveva deciso ridurre le scuole private, che sono le fondamenta della struttura propagandistica del predicatore. D’altra parte, poco prima della sua fuga negli Stati Uniti, in un video, Gülen invitava i suoi seguaci a «penetrare nelle arterie del sistema senza che nessuno noti la vostra esistenza finché non raggiungete i centri del potere». È l’agenda segreta per la creazione di un califfato che i suoi sostenitori smentiscono di avere: «Accusare i gulenisti di essere degli infiltrati — è una dichiarazione del movimento postata sul web — è una violazione dei diritti umani perché loro altro non fanno che rispettare la legge e servire il Paese». È un fatto, però, che tutti i nemici di Gülen in Turchia in qualche modo finiscano sempre per avere guai con la legge. Uno di questi è Ahmet Sik, il giornalista autore di un libro dal titolo L’esercito dell’Imam , che nel 2011 fu accusato di far parte del complotto, noto come Ergenekon, per rovesciare il governo: «Se li tocchi ti bruci» disse in un’intervista.
Quali saranno le prossime mosse del teologo nessuno lo sa. Negli ultimi due anni non ha condiviso molte delle scelte politiche fatte da Erdogan: la rottura con Israele, il suo sostegno ai ribelli siriani, l’allontanarsi dalla Ue e dagli Usa per guardare ad Oriente e infine la posizione pro-Morsi in Egitto. Per ora dalla sua fortezza in Pennsylvania il 72enne Gülen invita i suoi seguaci a costruire scuole piuttosto che moschee. È l’educazione l’arma migliore per arrivare al potere.
Monica Ricci Sargentini
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