Peres ottimista sull’Iran Cosa sperano gli israeliani ?
GERUSALEMME — Il comandante del sottomarino decide di risolvere da solo la crisi in Medio Oriente. Senza consultare il primo ministro o il capo di Stato Maggiore, sarà a lui a schiacciare quel bottone, a lanciare i primi missili nucleari contro l’Iran. È convinto di obbedire agli ordini o almeno di attuare la strategia del governo, che ogni giorno minaccia la guerra. Eppure non sembra aver voglia di farla, come suona il titolo della commedia satirica: Pffff, sospiro di sollievo, ce la siamo vista brutta. Pffff, come il ridicolo nome in codice di un’operazione che supera il punto di non ritorno.
Lo spettacolo è scritto da Aaron Levin, erede del mestiere dal padre Anoch: sbeffeggiare in teatro quelle che considera le smanie bellicose dei politici israeliani. Debutta fra una settimana a Tel Aviv, mentre sul palcoscenico diplomatico il premier Benjamin Netanyahu ripete le bordate contro l’accordo di Ginevra. In videoconferenza con il Saban Forum a Washington ieri ha avvertito: gli sforzi per raggiungere la pace con i palestinesi saranno inutili se Teheran dovesse produrre la bomba. Dallo stesso podio Barack Obama, il presidente americano, ha valutato 50/50 le possibilità che l’intesa preliminare con gli iraniani diventi definitiva. È la stima anche di Shimon Peres («i Guardiani della rivoluzione cercheranno di fermare le riforme») che però non rinuncia all’ottimismo: «Sono pronto a incontrare il presidente Hassan Rohani, non ho nemici».
Gli israeliani sono meno fiduciosi del loro capo dello Stato: un sondaggio pubblicato tre settimane fa dal quotidiano Yisrael Hayom, il cui editore Sheldon Adelson è un amico del premier, calcola che il 65,5 per cento è contrario all’accordo (allora in definizione). «Il problema è le voci controcorrente sono rimaste inascoltate — commenta l’analista Shlomi Eldar sulla rivista online Al Monitor —. I fatti che presentano un approccio differente non riescono a penetrare il bastione fortificato della linea ufficiale del governo».
Barak Ravid, corrispondente diplomatico del quotidiano liberal Haaretz, è convinto che la gente non sappia abbastanza. Durante i negoziati a Ginevra, intervistato dalla radio dell’esercito, ha implorato gli altri giornali (Haaretz e Al Monitor c’erano) di inviare i reporter in Svizzera: «Possono vedere con i loro occhi e raccontare che questo non è un circo. Gli americani non ci stanno fregando».
Chi in Israele ha letto i termini delineati dai mediatori alla fine di novembre, li giudica con parole meno apocalittiche di quelle pronunciate da un ministro come Naftali Bennett: «Se tra cinque o sei anni una valigetta atomica esplode a New York o Madrid, sarà colpa di questa intesa». Ehud Yaari, commentatore del Canale 2 , spiega: «Senza questo accordo, gli iraniani avrebbero potuto cominciare da domani a far funzionare tutte le loro 19 mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio». Il giornalista Arad Nir, stessa emittente, ricorda al pubblico che «anche il nostro amico François Hollande, il presidente francese, è contento».
Eppure Yuval Diskin, fino a due anni e mezzo fa capo dei servizi segreti interni, è stato scorticato dai portavoce del primo ministro per aver incitato Netanyahu a concentrarsi sui negoziati con i palestinesi: «Fallire sarebbe molto più pericoloso per il futuro di Israele che il programma atomico iraniano». Anche lo storico Zeev Sternhell definisce su Haaretz le trattative di Ginevra un modello da replicare: coinvolgere le stesse sei nazioni per tenere israeliani e palestinesi seduti al tavolo. «P5+1 può diventare la formula per la pace».
Davide Frattini
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