Ombre cinesi

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Il monumento all’incomunicabilità era il gran tazebao di via Pistoiese. Nel cuore della Chinatown pratese un muro ricoperto di annunci in ideogrammi. Si capivano solo i numeri di telefono. Annunci di lavoro, bici vendesi, una stanza da dividere. Ma poteva esserci scritto qualsiasi altra cosa e nello spread tra comprensione e pregiudizio le persone si allontanano. Fino alla clamorosa fiaccolata di ieri sera. Quando, per la prima volta, la comunità ha mostrato le foto dei suoi morti. Un piccolo passo per uscire dall’invisibilità. Sì, perché dei cinesi non si sa niente. Ci servono il caffè, ci vendono cianfrusaglie. Hanno inventato la religione del low cost prima che diventasse marketing. Da una parte commiseriamo le loro vite 24 ore su 24, sette giorni su 7. Dall’altra ci fanno paura, per una capacità di lavoro preternaturale, inconcepibile, da prima rivoluzione industriale. Però poi buongiorno e buonasera. Paghiamo pochi euro per un caricatore dell’iPhone che costerebbe sei volte tanto e siamo contenti. Fino a quando le contraddizioni di questo sistema esplodono, letteralmente prendono fuoco in un capannone pratese come tanti, e sette persone muoiono bruciate all’alba di una domenica come tante, dopo una notte passata verosimilmente a cucire.

Più che esseri umani, con nomi e storie individuali, ombre cinesi. Sempre più minacciose con la crisi che morde più feroce che mai. I nemici ideali, per dirla con Carl Schmitt, per ridefinire la nostra identità ammaccata. Se Prato muore la colpa deve essere di qualcuno. Ci sono tanti cinesi, che sgobbano da mattina a sera. Il sillogismo è fatto.
Peccato che sia un sillogismo, appiccicato sugli immigrati ben oltre la provincia toscana, sbagliato.
Per capire quello che è successo bisogna andare all’origine di questa storia e di queste storie. I cinesi sono immigrati anomali. Si mettono in proprio più degli altri. E a Prato sono riusciti in un’impresa che non poteva non avere conseguenze sulla psiche cittadina. «È l’unico luogo dove, in una sola generazione, sono diventati “ditte finali” e non solo terzisti per conto di italiani» spiega Antonella Ceccagno, docente di sociologia dei Paesi asiatici a Bologna che su incarico delle giunte precedenti li ha studiati. «Qui c’era il tessile. Loro hanno portato il pronto moda. Ma il contributo che hanno dato alla ricchezza locale non è stata sufficiente a compensare la crisi del tessile». Su cui si è innestata quella globale e ne ha fatto le spese la sinistra che da sessant’anni governava la città. «A quella economica è seguita una perdita di legittimità. E la coalizione di destra ha vinto in chiave anti-cinese». Non senza paradossi. Come il sindaco Roberto Cenni, imprenditore della moda, che mentre denunciava i cinesi locali andava a delocalizzare in Cina. O l’assessore alla sicurezza Aldo Milone che, lamentandosi in pubblico dell’invasione immobiliare orientale, in privato vendeva loro una villetta.
Le ipocrisie della politica non cancellano tuttavia i problemi. Se, fino a ieri, nessuno è andato a riconoscere i morti è perché i loro
stessi parenti potrebbero essere clandestini e non hanno intenzione di autodenunciarsi. È lo stesso motivo per cui molti evitano l’ospedale gratis e preferiscono farsi curare, pagando, da medici fidati. Invisibilità su cui allignano le leggende. Come quella nera, tragicamente smentita, che non muoiono mai. La verità è che intanto sono in media molto più giovani degli italiani e quando cominciano ad avere problemi seri tornano in Cina. Perché «la foglia non deve cadere lontano dall’albero » e per farsi curare da qualcuno che capisce bene la loro lingua. Chi proprio volesse verificare l’offensiva inconsistenza del mito, può farsi un giro ai cimiteri di Milano e di Brescia. Venire qui è costato loro tutto ciò che avevano, anzi di più. Se non hai nessuno in Italia paghi uno “she tou”, una testa di serpente, il trafficante che ti trova i contatti con un potenziale padrone. Ma anche se hai un parente che chiede espressamente te, succede che si faccia pagare per la cortesia. Solo i fortunatissimi partono da zero. Tutti gli altri da meno 12 a meno 18 mila euro, l’equivalente di un anno o più di salari mancati, per ripagare il debito. Questo per spiegare i turni disumani. Poi, finalmente “liberti”, inizia l’accumulazione originaria. In dieci in un soppalco, senza riscaldamento, risparmiando su tutto. Il cursus honorum di privazioni finisce generalmente col matrimonio, il giorno più ricco della vita, dove parenti e conoscenti consegnano le buste rosse piene di contanti. Vengono da lì i 50, 100, 150 mila euro cash che le banche non avrebbero mai concesso e che diventano la proposta che i proprietari di immobili italiani non possono rifiutare. Non sono, come si tende a romanzare, i soldi delle triadi. Ma il frutto del “guanxi”, quel sistema creditizio premoderno, clanico, basato sui prestiti reciproci, e che funziona sul presupposto che il 90% dei cinesi d’Italia vengono tutti dalla stessa regione, lo Zhejiang, e sono tutti in qualche modo legati da pochi gradi di separazione. Chi sgarra, e non restituisce il favore quando serve, diventa un “herein”, una persona nera, ostracizzata per sempre.
Può non piacere, ma funziona. Al punto che in un convegno recente a Prato intitolato provocatoriamente “Per fortuna vendo ai pratesi” spiegava come questo mutuo soccorso fosse anti-ciclico, non risentisse della mancanza di liquidità della crisi globale. Anzi, alla locale Unicoop i cinesi, ufficialmente il 7% della popolazione (16 mila persone, ma si stima che con gli irregolari siano almeno il doppio) consumassero il 25% dei prodotti per l’infanzia. E da quando il supermercato impiega commessi che conoscono il mandarino, come succede da sempre nella vicina Farmacia Etrusca o alle Poste della Chinatown, gli affari vanno benissimo. Per gli italiani, grazie ai cinesi. Dove si ferma la politica arriva il commercio. Però la prima resta essenziale. «A Campi Bisenzio e a San Donnino, dove i problemi di convivenza si sono presentati prima che a Prato, adesso conviviamo pacificamente» racconta Wang Dongbo, presidente fiorentino di Associna, l’associazione delle seconde generazioni. Un percorso lungo, culminato nel 2008 con la nomina del primo assessore cinese, una laureata in chimica, ai rapporti con la comunità orientale. «Lì tendenzialmente non si trovano più dormitori come quello bruciato in via Toscana. A Prato però gli affitti per gli stranieri costano di più. E i trasporti pubblici da e per il Macrolotto sono praticamente inesistenti. Su questo l’amministrazione potrebbe impegnarsi. Le colpe? Sono di tutti. Dei cinesi che non rispettano la sicurezza, ma anche degli italiani che ci lucrano, sia come affitti che come costi di produzione. E anche di noi consumatori che non disdegniamo risparmi assurdi». Rincara la dose la sinologa Ceccagno: «Queste condizioni di lavoro sono funzionali al sistema della moda. Se non fosse così le avrebbero già risolte ».
Il sindaco e il suo assessore alla sicurezza hanno già annunciato raid a tappeto. «Difficile immaginare che miglioreranno i rapporti » osserva mestamente Luciano Luongo, appassionato professore di italiano all’Istituto Datini che da anni cerca di migliorare la comprensione reciproca. «Le regole vanno rispettate, ovvio, ma anche da parte dei pratesi che affittano loro i capannoni a 8-12 mila euro al mese e poi fingono di ignorare l’uso che se ne fa». I problemi sono complessi, quella economica è solo la buccia e la polpa culturale non si cambia in un giorno. Ne è convinto anche Massimo Luconi, regista pratese autore di “L’occupazione cinese” che Rai Storia ha appena mandato in onda: «Ho visto fabbriche in condizioni pessime e altre esemplari, gestite da giovani cinesi forse più ligi di quanto non lo sarebbero gli italiani. Se ne esce solo insieme, non c’è alternativa». Magari facendo il primo passo. Anni fa Alexia, una ventenne cinese di Prato, aveva un’agenzia immobiliare tra due negozi italiani: «Mai una volta che uno dei titolari mi dicesse buongiorno. Tantomeno come stavo. Ed ero solo una ragazzina ». Oggi lavora in banca e si è sposata con un italiano, un ex assessore. Dei cinesi non si sa niente, ma se si chiede gentilmente ti rispondono. A volte anche affermativamente a proposte di matrimonio.


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