by Sergio Segio | 16 Dicembre 2013 7:36
QUNU. INFINE la parola che il Sudafrica aspettava da quella notte di giugno in cui Mandela fu ricoverato d’urgenza per non più riprendersi e che adesso, a ogni giorno del lutto che passava, sempre più era nell’aria, è stata pronunciata.
SIYAKUKHULULA, «noi ti lasciamo andare». Questo i viventi devono dire all’anima del defunto, perché possa liberarsi dal corpo, da un presente che per lei non c’è più, e ricongiungersi agli avi, al passato, al fluire della vita che non si ferma mai. Questo ha detto Nandi, una delle nipoti, parlando ieri mattina al funerale: «Fa’ buon ritorno alla terra degli antenati, Madiba ».
Ed è stato giusto che quando la bara è giunta nel piccolo cimitero di famiglia, quando la scorta militare ha ripiegato la bandiera sudafricana che l’avvolgeva e ha suonato il silenzio prima di ritirarsi, quando l’eco delle salve di cannone si è spenta nella prateria, quando tutto questo è stato compiuto, anche le telecamere si siano spente. E che Nelson Mandela sia tornato alla terra riparato dagli occhi del mondo, alla presenza dei soli familiari, della vedova e della seconda moglie che si sorreggevano a vicenda, di pochi altri invitati, e dei capi della tribù che hanno invocato gli spiriti e sacrificato un animale come la tradizione vuole. Perché questo cittadino del mondo e che il mondo ha adorato, questa icona del secolo passato e del nuovo, questo statista simbolo della libertà ai nostri tempi, al momento della sepoltura è tornato soltanto un uomo, un africano, un figlio del continente «della saggezza, della dignità e di una profonda poesia» (parole di Karen Blixen).
Il funerale di Mandela è cominciato di buon mattino, alle otto, sulle colline di Qunu bagnate dal sole, 800 chilometri a sudest di Johannesburg. Era l’ultimo appuntamento del lungo lutto nazionale cominciato il giorno della morte, giovedì 5. Il più complicato dal punto di vista logistico, perché non era semplice accogliere migliaia di invitati in questo angolo remoto e sprovvisto di quasi tutto. Ancora una volta il miracolo sudafricano si è compiuto, le cose sono filate via lisce, ma quello che si aspettava era una vera prova di unità, di coralità, di armonia collettiva dopo che nei giorni precedenti si erano avvertite note stonate, segnali di
distanza fra governanti e popolo, tentativi di appropriarsi dell’eredità spirituale e politica di Mandela da una parte e dall’altra.
Sotto l’enorme tenda bianca eretta per l’occasione nella campagna c’era ancora una volta di tutto. Le donne della Lega femminile dell’African National Congress e il miliardario della Virgin Richard Branson, capi di Stato africani in esercizio o a riposo, il principe Carlo e Oprah Winfrey, la conduttrice americana di talk show. Familiari, prelati, generali, militanti di partito, gli ultimi vecchi compagni di lotta di Mandela ancora vivi. Ma questa volta i 4.500 inviti erano stati accuratamente selezionati, e la ricetta ha funzionato, anche se il prezzo è stato di celebrare un funerale a porte chiuse (e di nuovo, parlando con i passanti tra le casupole di Qunu dopo la cerimonia, è stato facile raccogliere la lamentela sentita tante volte in questi giorni: «Nella nostra tradizione è impensabile impedire a chi voglia di andare a un funerale. Ce ne hanno privato, ce lo hanno rubato»).
È stato dunque sui televisori — chi ce li ha — che anche gli abitanti di Qunu hanno seguito il susseguirsi dei discorsi, i canti, gli applausi, le omelie, le orazioni in memoria del «più grande figlio del Sudafrica», hanno sentito spezzarsi la voce dell’ottantacinquenne Ahmed Kathrada, 26 anni di prigionia, uno meno di Mandela: «Ho perso un fratello, la mia vita è vuota, non so più dove rivolgermi». L’ovazione più grande, tutta la sala in piedi, l’ha strappata la presidente malawiana Joyce Banda, perché con parole appassionate e semplici ha raccontato come l’insegnamento di Mandela le sia servito nella sua esperienza di capo di Stato, come le sia stato facile perdonare i suoi avversari politici, che hanno anche attentato alla sua vita, «perché Madiba lo aveva già fatto».
Anche questa volta il discorso conclusivo è spettato al presidente Jacob Zuma: «Il Sudafrica continuerà a crescere perché non osiamo deluderti», ha detto. Ha intonato un canto struggente e la platea lo ha seguito. È stato applaudito. Ma adesso è proprio lui, l’erede politico diretto, colui per il quale l’esempio di Mandela è più pesante, più irraggiungibile. Un sondaggio Ipsos pubblicato ieri dice che il 51% degli iscritti del partito vorrebbe che Zuma si dimettesse, senza ripresentarsi alle elezioni dell’anno prossimo. Un terzo di loro sta valutando se mettere la croce sul simbolo di un altro partito. Zuma è compromesso in molti scandali, l’ultimo dei quali è quello dei 14 milioni e mezzo di euro di denaro pubblico spesi per ristrutturare la sua residenza di campagna. Presto giungerà il rapporto di una commissione d’inchiesta ed è probabile che esso renderà la posizione del presidente ancora più difficile. Il Sudafrica imparerà presto a vivere senza Mandela
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