by Sergio Segio | 30 Dicembre 2013 15:40
Come Ronzinante, il destriero di don Chisciotte, Marco Cavallo è uscito dalla sua casa e si è avventurato per le strade del mondo col suo ostinato messaggio di liberazione e di cavalleria, che non si lascia intimidire dalle tante difficoltà incontrate per strada. Marco Cavallo è il grande cavallo azzurro di cartapesta che nel 1973 uscì, rompendo il muro, dall’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, per simboleggiare la libertà che si apriva per molte persone, che cinque anni dopo avrebbero ritrovato, con la legge 180 che aboliva i tradizionali manicomi, diritti e dignità. Diritti e dignità ridati a persone che vivevano spesso in condizioni subumane — certo diverse da ospedale a ospedale, a seconda di chi li dirigeva, ma spesso intollerabili. Non solo pazienti affetti da disturbi psichici (mai negati, come spesso falsamente si dice, dalla nuova psichiatria riassunta nel nome di Basaglia) ma anche disadattati, infelici, asociali, alcolizzati. Marco Cavallo è stato e rimane il simbolo gioioso di questa possibilità d’incontro, di libertà; perfino di comune allegria. Oggi il territorio del vecchio ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste è un luogo amabile e sereno, che ospita istituti universitari, mostre, roseti, ristoranti; anche poche abitazioni per ex ricoverati che dopo tanti anni passati in quel luogo non se la sentono di cambiare casa, ma preferiscono restare in un posto loro familiare e divenuto lieve e accogliente.
Tra il 12 e il 25 novembre scorso la cavalcata ha portato Marco Cavallo nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, e poi Torino, Genova, Livorno, Palermo, Roma, L’Aquila, Firenze, Milano. Il cavallo, incoraggiato dalla bella lettera e dalla medaglia del presidente della Repubblica, si è incontrato con i sindaci, con i presidenti del Senato e della Camera e con la gente.
A organizzare il lungo viaggio il comitato Stopopg, un cartello di decine di istituti e associazioni dalla Cgil ai familiari, ad Antigone, a Cittadinanza attiva, insieme alle Edizioni Alpha Beta con la «Collana 180. Archivio critico della salute mentale». A guidare, in ogni senso, questa cavalcata è stato Peppe Dell’Acqua, uno dei primi e fondamentali collaboratori di Basaglia, direttore sino a poco tempo fa del Dipartimento di salute mentale di Trieste e animato da una passione civile e da una competenza terapeutica accompagnata da un’affettuosa, ironica, umanissima attenzione alla vita, immune da ogni «ideologia». Perché, chiedo a Peppe Dell’Acqua incontrandolo in un caffè triestino, questo viaggio adesso?
Dell’Acqua — Il sostegno non comune di un grande sindacato e del responsabile nazionale Stefano Cecconi, conferisce un significato in più all’impresa. Quarant’anni fa l’uscita del Cavallo fu solo l’inizio. La critica alle istituzioni totali e il loro superamento continuano a essere nella prospettiva senza fine di quell’inizio. Di fronte alla persistenza degli Opg e alla fatica di avviare processi reali di chiusura, il Cavallo non ha potuto restare fermo. Vuole evitare che un’occasione storica, che nasce dall’inchiesta della commissione Marino, venga perduta. O peggio si trasformi in una paradossale riproposizione dei peggiori dispositivi — la pericolosità sociale, la misura di sicurezza e la negazione della soggettività — che un secolo e mezzo fa hanno fondato i manicomi criminali. Mi riferisco alla proposta governativa di costruire, nelle singole regioni, piccoli ospedali psichiatrici mantenendo una cultura psichiatrica clinico-biologica e una legislazione, il Codice Rocco del 1930, che riprodurrebbe gli stessi meccanismi degli istituti che vuole superare. Il vero cruccio del Cavallo sono i 160 milioni che verrebbero investiti per riadattare carceri di massima sicurezza e padiglioni dei manicomi vuoti, rinnovando, in piccole strutture regionali, l’arcaica e infondata triade concettuale: malattia mentale, pericolosità sociale, internamento. Non sarà infatti la frammentazione dagli attuali Opg a tanti mini Opg a risolvere il problema, quanto piuttosto l’impegno di Regioni, Dipartimenti di salute mentale e Tribunali nel mettere in atto risorse e progetti individuali con i quali garantire attenzione alla sicurezza sociale e, al tempo stesso, nel promuovere percorsi individuali di cura.
Magris — Lo scopo principale di questa sortita di Marco Cavallo mi sembra sia stata l’urgenza di richiamare l’attenzione sugli Opg, la cui situazione di disagio, di promiscuità, di pudore violato, di diffidenza reciproca degli internati tu descrivi con un’intensità che lascia il segno. Qual è l’alternativa? Uno dei meriti della legge 180 è stato affermare i diritti costituzionali anche per i malati di mente, contemplando in prospettiva la responsabilità e la conseguente punibilità del malato per eventuali reati commessi. Infatti la responsabilità, in ogni senso, fa parte dell’essere umano e della sua dignità. Ricordo che una volta Basaglia disse che il malato mentale non può permettersi di disturbare, schiamazzando di notte, il sonno dei vicini. L’attenzione ai suoi diritti e alle sue sofferenze non va confusa con un paternalistico buonismo; Agostino Pirella, direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia dopo Basaglia, a un malato che gli aveva detto «Lei è una merda», non porse l’altra guancia, ma rispose: «No, guardi, una merda sarà lei». In che rapporto sta la richiesta di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari con la situazione dei malati che hanno commesso reati? Quale sarà o dovrebbe essere la loro condizione?
Dell’Acqua — «Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono?» si chiedeva Michel Foucault. La chiusura degli Opg va intesa come un banale e irrinunciabile atto di giustizia. Il presidente Napolitano, nel suo messaggio alla nazione del 31 dicembre 2012, li definì «luoghi orrendi, non degni di u n Paese appena civile». Alla fine del viaggio, devo dire che l’orrore non sta solo nella fatiscenza degli ambienti, ma soprattutto nell’insensatezza assoluta che i dispositivi psichiatrici e giuridici concorrono a riprodurre. L’internato vive una costante condizione di disinformazione, di precarietà, di sospensione. Scriveva Basaglia: «È interessante notare che il reo non viene inviato in carcere perché non può comprendere ciò che significa pena e rieducazione. Viene allora inviato in manicomio giudiziario, dove sotto forma di cura espia in realtà una pena che capisce ancora meno». Due recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno tentato di riportare nello stato di diritto la condizione del «folle reo». Deve essere garantita la stessa cura che riceve un altro cittadino con la stessa malattia e che non ha commesso un reato, quasi intimando a giudici di sorveglianza, a giudici di merito e aziende sanitarie la presa in carico e la cura di quel cittadino evitando l’invio «per cura» nell’Opg. Se dal 1978 gli ospedali psichiatrici non sono più «cura» per i cittadini liberi che soffrono di un disturbo mentale, tanto meno possono esserlo gli Opg per chi è ritenuto malato e «incapace». Nella prospettiva del cambiamento dobbiamo adoperarci perché il «folle reo» possa essere di norma «capace» e responsabile, e portato in giudizio. E, se colpevole, condannato. L’erogazione della pena, pur potendo e dovendo considerarsi il carcere, dovrà articolarsi attraverso misure alternative che prevedano l’impegno delle comunità locali, dei centri di salute mentale, delle reti sociali, di risorse finalizzate al progetto per la persona.
Magris — Mi sembra fondamentale la richiesta di aprire i centri di salute mentale 24 ore su 24, perché le crisi psichiche, che possono avere gravi conseguenze per il malato e per altri, non hanno orario sindacale. È pensabile un’apertura dei centri di salute mentale 24 ore su 24 in tutto il territorio nazionale? Ho anche l’impressione che non tutti i centri funzionino con la medesima efficienza, ma che vi siano notevoli differenze fra l’uno e l’altro, come ho avuto casualmente modo di vedere, constatando sia notevolissimi risultati sia disfunzioni e carenze, anche esiti tragici di pazienti pur curati in un centro di salute mentale. Non c’è forse ogni tanto un certo trionfalismo, che parla poco di ciò che resta da fare e che presta poca attenzione a chi — come inevitabilmente accade e come oggi accade molto meno di una volta, molto meno che all’epoca dei manicomi chiusi — resta vittima di una crisi di violenza da parte di un malato? Non si rischia una visione manichea, che considera tutti gli psichiatri non appartenenti al movimento basagliano dei repressori, mentre — certo accanto ad alcuni autentici repressori — ce n’erano di aperti e illuminati, che facevano il possibile?
Dell’Acqua — È sempre bene precisare che sono davvero pochi gli psichiatri che si dicono appartenenti al movimento basagliano e non tutti, dentro questa definizione, agiscono secondo pratiche conseguenti. Molti giovani operatori tuttavia sono affascinati da quella cultura e con fatica nella pratica quotidiana cercano di essere conseguenti. È vero invece che le parole, le forme organizzative e le proposte di quel movimento sono molto diffuse e pesano. Una cultura che riesce, malgrado tutto, a porre prima di tutto limiti etici nell’agire psichiatrico. Nel lavoro di salute mentale, oggi, non è più possibile prescindere dal lavoro di Basaglia e le buone pratiche sono alla portata di tutti. E tuttavia oggi possiamo contare 20 servizi sanitari regionali differenti. Lo stesso diritto costituzionale alla cura e alla salute nel rispetto della dignità e della libertà della persona (art. 32 della Costituzione) può essere esercitato in alcune Regioni mentre è negato in altre. Il Cavallo è partito da Trieste avendo nell’ordine tre grandi obiettivi: chiusura degli Opg, contrasto ai mini Opg, attivazione di Centri di salute mentale (Csm) sulle 24 ore su tutto il territorio nazionale. Alla fine del viaggio è diventato chiaro che bisogna riaccendere l’attenzione sullo stato sempre più preoccupante dei servizi di salute mentale.
È chiaro come all’assenza o al malfunzionamento dei servizi consegua l’Opg. In Italia, oggi, circa 18 persone su 1 milione sono internate in Opg. In Friuli-Venezia Giulia e in altre aree dove esiste una diffusa rete di servizi diventano meno di un terzo e a Trieste da 5 anni nessun cittadino è internato. Ci sono Regioni dove più di 30 persone su 1 milione sono internate. Le risorse che oggi si impegnano sarebbero sufficienti ad attivare Csm h24 ovunque: più servizi comunitari e meno denaro perduto nell’infinito mondo delle residenze, delle comunità terapeutiche, degli istituti, dei luoghi di amputazione, come tu dici. In Lombardia come in Puglia il 70% delle risorse dedicate alla salute mentale si consuma ogni anno in acquisto di posti letto in strutture che sono alla fine cronicari.
Magris — Come si colloca la situazione dell’assistenza psichiatrica in Italia rispetto agli altri Paesi europei? Non sto chiedendo pagelle di confronti, bensì se esista, in vista di un’auspicata Unione Europea sempre più omogenea, un progetto comune, l’idea di unificare la situazione — e dunque i diritti e doveri — del malato in tutta Europa.
Dell’Acqua — L’Italia è il Paese che, per primo, ha avuto il coraggio di chiudere gli ospedali psichiatrici. Ma soprattutto di restituire diritto e dignità al «malato di mente». Da questo momento molti altri Paesi hanno dovuto interrogarsi. Nel 2001 l’Organizzazione mondiale della sanità promosse una Giornata della salute mentale con lo slogan: «Contro l’esclusione, il coraggio di prendersi cura», spiegando con chiarezza che era arrivato il momento di attivare politiche governative per la chiusura degli ospedali psichiatrici. Nel 2005 la stessa Oms, radunando a Helsinki tutti gli Stati dell’Europa geografica, approvò una Dichiarazione con lo slogan: «Non c’è salute senza salute mentale», che suggeriva ai governi di orientarsi sempre più a pratiche territoriali di prossimità e di attenzione verso il singolo, tenendo come ultima risorsa il letto in ospedale. Le parole che ricorrono in questo documento sono: cittadino, persona, individuo. Parole che certamente vengono dai passaggi non solo italiani di deistituzionalizzazione. E che Marco Cavallo ha voluto rimettere in gioco per i «fratelli più scomodi» di tutti.
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