by Sergio Segio | 7 Dicembre 2013 8:51
Non c’è sistema elettorale che metta i partiti al riparo dal corpo elettorale. Quando la Prima Repubblica stava per crollare, le forze politiche del tempo pensarono di essersi poste al riparo dalle macerie varando il Mattarellum. E vinse Berlusconi.
Oggi il copione sembra lo stesso, e senza curarsi dell’aria che tira nel Paese ognuno cerca di speculare sul modello di voto da scegliere, in modo da posizionarsi nella sfida di Palazzo, in un gioco degli specchi destinato a durare a lungo. Perché è chiaro a tutti che non c’è più la possibilità di andare alle urne in marzo, che per varare una riforma servono almeno un paio di mesi, a patto di avere già un accordo sottoscritto e blindato in Parlamento. Ma l’accordo non c’è e non c’è nemmeno una maggioranza in grado di difenderlo nelle Camere. E siccome sono giorni di vigilia elettorale, tra le primarie del Pd, il battesimo del Nuovo centrodestra e la nascita dei club «Forza Silvio», i leader hanno dei palchi su cui salire e dei militanti da arringare.
Così Renzi annuncia di esser pronto a parlare con tutti, «anche con Berlusconi» pur di arrivare a un nuovo meccanismo di voto, perché non vuole farsi ingabbiare nell’asse Quirinale-Palazzo Chigi che a suo avviso mira a stritolarlo. Chissà se il sindaco di Firenze pensa davvero che quel sentiero sia percorribile, senza il rischio di provocare la scissione del suo partito prima ancora della crisi di governo. Di sicuro non dovrà stupirsi — e sicuramente non si stupirà — se lunedì mattina il primo a fargli le congratulazioni per l’elezione a segretario del Pd sarà proprio il Cavaliere, che pubblicamente fa mostra di credere ancora alle elezioni anticipate, ma che in realtà cerca solo un ruolo da protagonista nella partita delle riforme.
Non a caso l’altro ieri — durante una riunione con i dirigenti azzurri — ha glissato sulla reale prospettiva delle urne e soprattutto non ha sciolto le riserve sull’atteggiamento da tenere in Parlamento in vista dell’ultima lettura sulla modifica del 138, che garantirebbe un percorso accelerato alle modifiche istituzionali. È vero che a oggi l’orientamento di Forza Italia è di votare contro, ma a parte il fatto che sulla posizione da assumere c’è un caleidoscopio di posizioni nel partito, è Berlusconi che non ha deciso se sbattere la porta e intanto la tiene socchiusa, all’occorrenza.
Vari motivi inducono l’ex premier a temporeggiare. Intanto non ha ancora realizzato se gli convenga davvero l’ormai ipotetica sfida nelle urne in marzo, o se piuttosto sia preferibile dare battaglia al governo dall’opposizione, lucrare voti per le Europee e prepararsi per le Politiche facendo pulizia nel partito, garantendosi una posizione di forza nel centrodestra. E poi, senza elezioni anticipate, vuole capire se lo si noterebbe di più rimanendo ai margini della partita sul riassetto istituzionale o se gli converrebbe invece entrare nel gioco, e verificare per esempio quale fondamento abbia la tesi espressa ieri dalla Bindi: «Credo che amnistia e indulto si possano prendere in considerazione, e si potranno fare quando avremo aperto il cantiere delle riforme»…
La verità è che i partiti dovrebbero pensare in grande per uscire dall’impasse e non venir travolti fuori dal Palazzo. Invece tutti stanno giocando a mosca cieca dentro un labirinto. E infatti mentre oggi dal podio del Nuovo centrodestra il vicepremier Alfano spiegherà che sulle riforme «il governo non potrà dare la sensazione di indugiare» e che dovrà essere «protagonista attivo nel processo», Letta sarà a preparare il discorso di mercoledì prossimo alle Camere, dove — per ottenere la fiducia — si limiterà a dire il minimo indispensabile sulla legge elettorale. Perché prima di trovare un accordo nella maggioranza, bisognerà che il Pd trovi un accordo con se stesso, visto che le preferenze sul futuro meccanismo di voto spaziano dal doppio turno di collegio al sistema tedesco, che fa proseliti nell’area bersaniana e dalemiana.
In attesa di un’intesa, proprio l’assenza di una legge elettorale è la miglior polizza sulla vita per il governo: finché non sarà varata una riforma nessuno potrà infatti permettersi di aprire la crisi e di andare al voto con il proporzionale puro e le preferenze, perché — se così fosse — nessuno tornerebbe nel Palazzo da vincitore. In molti nemmeno tornerebbero. Come venti anni fa.
Francesco Verderami
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