Le parole che mi liberano

by Sergio Segio | 15 Dicembre 2013 8:44

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Quattro successivi quadri narrano l’infanzia e poi la breve adolescenza troncata di Cappello, nato a Gemona, in un casolare di mezza montagna, distrutto dal terremoto, ed è proprio il grande terremoto del Friuli che viene a sconquassare la sua vita di bambino: perché, come si sa, il sisma non devasta soltanto le case, le chiese, le scuole e i monumenti, ma anche il tessuto sociale, le tradizioni, le abitudini, i legami tra i compaesani. Profugo fin da subito, dunque, il bambino Pierluigi, sfollato in una sconosciuta località di mare assieme a persone sconosciute, stravolto, estraneo, condannato a timidezza eterna.
Precede la prima tragedia, tuttavia, un capitolo pieno di spensieratezza, nel quale l’autore rievoca la sua breve vita felice di bambino che scorrazza per sentieri e campi, e passa gran parte del suo tempo osservando il lavoro — meticoloso e meraviglioso — di un vecchio fabbricante di gerle, l’ultimo rimasto nella zona.
Non si pensi, però, a una nostalgica esaltazione — come usa adesso — di perduti mestieri antichi: Cappello racconta il suo assoluto incanto di bambino di fronte alla magica abilità manuale del vecchio artigiano, istintivamente percepita alla stregua di un rito sacro tramandato da lontani secoli, cui egli assiste in devoto silenzio; comprendendo, altrettanto istintivamente, che la morte di Silvio, l’uomo delle gerle, non può che segnare una definitiva rottura dei tempi.
Nel frattempo arriva la scoperta dei libri, qualsiasi libro o rivista o giornale, parola scritta purché sia, in qualunque forma, simile all’acqua per un assetato disposto, pur di bere, a piegarsi ad ogni fontanella, ruscello o cascata: operazione comunque non facile per chi in casa, di parola scritta, riesce a trovare soltanto il vecchio Vangelo, che ancora porta l’impronta del pollice della nonna.
Non a caso il piccolo Pierluigi diventa perciò il fenomeno del paese: il figlio del manovale Toni, quello del casolare a metà montagna, legge! Tanto che, quando giunge in paese il venditore di enciclopedie, è lassù che viene indirizzato a colpo sicuro. E infinita è la tenerezza con cui l’autore descrive la lunga trattativa di suo padre intorno a quella spesa «di lusso», fuori dalla sua portata, ma condotta a termine per la fierezza di avere un figlio lettore.
Ed ecco l’adolescenza che va preparando la grande, tremenda trappola. Già difficile per conto suo, perché conduce il protagonista a frequentare le superiori nel capoluogo, dove si scoprirà diverso dai compagni, perché povero, perché ignorante dei riti cittadini, perché l’unico della scuola vestito secondo l’ingenuo modello d’eleganza della mamma, pantaloni stirati e giacca, mentre tutti gli altri sono in felpa e jeans.
Poi, una notte, l’incidente in motocicletta: due vertebre rotte, morte le gambe, morti tre quarti del corpo. E Cappello che immagina il chirurgo mentre guarda le lastre con il disastro della sua colonna vertebrale e, scoperta l’età del paziente — sedici anni —, a mezza voce commenta: fine pena mai. Requiem che l’autore mette in bocca al medico, ma è evidente che se l’è ripetuto egli stesso, chissà quante volte, dentro di sé, ragazzo privato di gambe e di sogni.
L’ergastolo cui è stato condannato lo fa crescere di molti anni in poche settimane e, assai anzitempo, lo trasforma in genitore dei suoi genitori, cui vorrebbe risparmiare lo strazio tenendoli all’oscuro dell’irrimediabile — e a lui chiarissima — sua condizione di paraplegico. Prigioniero per sempre? Certo che sì, in modo doloroso e spesso umiliante. Eppure — non è retorica, chi legge queste pagine, che sono in prosa ma risuonano di poesia, lo capirà — anche libero, grazie alla lettura e alla scrittura: miracolato dalla letteratura, nel vero senso della parola.

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