by Sergio Segio | 14 Dicembre 2013 8:04
Il capo dello Stato lascia capire che come colpevole della crisi economica degli ultimi cinque anni, l’opinione pubblica tende in misura crescente a indicare le istituzioni continentali, oltre che i partiti nazionali; e che l’appuntamento di primavera potrebbe scaricare su di loro l’esasperazione e il malcontento. Secondo il presidente della Repubblica è diventato difficile qualunque tentativo di «recuperare consenso con argomenti razionali».
Il pericolo è di ripiegarsi su una visione attenta solo allo scontro interno, perdendo di vista la politica estera. Che poi tutto questo si esprima attraverso un’affermazione dei movimenti populisti o con una crescita dell’astensionismo, è da vedere. Ma l’impressione prevalente è che potrebbe arrivare un’ondata in grado di trasformare gli equilibri politici europei; e non in direzione di una maggiore integrazione. D’altronde, il modo in cui il Movimento 5 Stelle si muove in Italia, con gli attacchi alla moneta unica, non sono affatto isolati. Una Lega Nord in crisi cerca di recuperare terreno agganciandosi al Front National francese di Marine Le Pen, nemico dell’Ue «dei burocrati e delle banche».
E Forza Italia e settori del Pd oscillano tra il «no» al rispetto dei vincoli europei e la richiesta di una loro revisione; comunque, criticano quanto è stato fatto finora. L’«illusione dell’autosufficienza» continua a fare danni nella percezione che si ha dell’Unione. Da mesi rimbalzano i timori che si crei una sorta di movimento dei «Tea party» nel vecchio Continente: gruppi antisistema, con una forte ideologia anti-establishment,simili a quelli conservatori che da alcuni anni stanno radicalizzando la politica negli Stati uniti. L’eterogeneità è in qualche modo sovrastata dall’ostilità nei confronti di chi non ha battuto la crisi, e da una visione liquidatoria delle classi dirigenti. Tra il 2007 e il 2013, le opinioni favorevoli all’Ue sono calate dovunque; e l’Italia non fa eccezione. L’idea della costruzione europea si è come «rimpicciolita», avverte Napolitano.
Movimenti come i «Forconi», nati dalla protesta di chi lavora nell’agricoltura ma ormai sinonimo di una serie di categorie senza rappresentanza politica né sociale, sono una delle manifestazioni di questo malessere. E nonostante i timori giustificati di una deriva violenta, si intuisce che i «Forconi» sono figli della crisi. Passa in secondo piano la disputa su un’erosione dei redditi che in parte riflettono una lunga stagione di privilegi. Soprattutto tra le forze d’opposizione, si soffia sul fuoco in modo strumentale e al limite dell’irresponsabilità per colpire il governo. Ma la realtà è preoccupante. La stessa Chiesa cattolica, di solito prudente di fronte alle «piazze», invita a non sottovalutare il fenomeno per evitare che si gonfino le spinte populiste. Il problema è che la ripresa appare lenta, faticosa, e non consente di illudersi.
La crescita del debito pubblico, certificata ieri da Bankitalia, per quanto scontata fa dire agli avversari del governo che la politica economica non sta funzionando. In realtà, il dato in sé non dice molto: era previsto, e andrà valutato in rapporto al Prodotto interno lordo. Il tentativo di palazzo Chigi è quello di arginare il malcontento dando segnali concreti. Il decreto col quale ieri il Consiglio dei ministri ha deciso l’abolizione graduale del finanziamento pubblico ai partiti potrebbe essere il primo. Ma per contrastare l’idea diffusa secondo la quale la classe politica in realtà ha fatto ben poco finora per ridurre i suoi costi, ci sarà bisogno di altro. Per questo si riparla di riforme istituzionali per ridurre il numero dei parlamentari, di abolizione delle province, e via «tagliando». Il tempo, però, è poco, e l’eredità del passato pesante. Per questo il voto europeo comincia a fare tanta paura: non solo in Italia.
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