L’abbraccio nello stadio del mito “invincibile” che ha sconfitto il razzismo

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Dato per la prima volta all’Africa, anzi assegnato al suo Sudafrica, perché nessun centravanti era mai riuscito con i gol a sfondare il razzismo come lui. Da prigioniero: 27 anni dietro le sbarre a sognare un altro mondo. Ci voleva il suo carisma per portare il pallone in un continente che pareva reietto, lontano da ogni grande manifestazione. E anche se è passato inosservato, il mondiale 2010 è iniziato l’11 giugno, non una data qualunque, ma il giorno in cui nel ‘64, 46 anni prima, Nelson Mandela e i suoi sette compagni di lotta vennero condannati al carcere a vita per sabotaggio.
Mandela ha sempre intuito che nello sport c’era altro. Cicatrizzava, guariva dai traumi, favoriva la ripresa del movimento. Ne era incuriosito. Per questo da detenuto numero 466/64 di Robben Island, da un cella di appena 1.95 metri, con una sola feritoia di 30 centimetri, il 5 luglio dell’80 riuscì a convincere la sua guardia a procurargli una radio in modo da poter ascoltare in diretta la finale di Wimbledon. Quella tra Borg e McEnroe, tra un re e un ribelle. È grazie a Madiba e a cinque dei ragazzi detenuti con lui nell’Alcatraz dell’Africa, che il grande football ha potuto trovare casa dove prima c’era solo sfiducia disperazione. Si chiamavano Lizo Sitoto, Sedick Isaacs, Sipho Tshabalala, Mark Skinners e Anthony Suze. Erano ventenni, neri, tutti prigioneri politici. Finirono in catene, senza processo, condannati a 75 anni, a spaccare pietre. Ma erano troppo giovani per non avere speranze: disegnarono su un pezzo di carta una scacchiera e ci giocarono fino a quando non venne requisita. Quel foglio appallottolato diventò una palla che si trasformò in un gomitolo di stracci che continuò a fare gol notturni e silenziosi. I cinque chiesero per quattro anni il permesso di formare una squadra di calcio e di giocare il fine-settimana. Permesso negato. Poi con l’intenzione di stroncarli i carcerieri dissero sì. «Non si tengono in piedi, dopo una settimana non avranno più forze». I cinque tennero in piedi non solo se stessi, ma anche gli altri. Nonostante le privazioni e le torture. Formarono the Makana Football Association, organizzarono partite e torneo. Sempre dentro. Andarono nella biblioteca del carcere, chiesero il regolamento Fifa che divenne la loro Bibbia, studiarono le regole. Invece di piangere, fecero il gioco di squadra. «Il calcio ci ha aiutati a essere parte di qualcosa. Ci dicevano che non eravamo persone, invece con il pallone abbiamo rivendicato la nostra dignità».
Mandela ha combattuto per portare in Sudafrica anche i Giochi Olimpici, perché lo sport contribuisse a mischiare storie e razze. Nel ‘95 la sua foto all’‘Ellis Park di Johannesburg, con la maglia numero sei che gli aveva regalato il capitano (bianco) degli Springboks, François Pienaar, fece capire che il Sudafrica aveva fatto veramente pace con se stesso. C’era lui nero, con attorno i giocatori bianchi. Anche perché il motto dell’African National Congress era «No normal sport in an abnormal society», non ci può essere uno sport normale in una società anormale. Se si è schiavi, lo sport non libera. Mandela applaudì al successo: 15-12, dopo due supplementari, contro la Nuova Zelanda, nemica storica. Dai quarti di finale era stato un Sudafrica contaminato: 14 bianchi più un nero, Chester Williams. Era fatta: finalmente nella rainbow nation, nel paese dell’arcobaleno, il rugby si apriva a tutti i colori. Perché fino a quel momento mboxo, quella cosa che non è rotonda, così si chiama la palla ovale in bantu, aveva viaggiato solo in mani bianche. Mandela andò anche al matrimonio di Williams, giocatore simbolo dell’integrazione. E un anno prima, nell’aprile del ‘94 quando l’Anc vinse le elezioni, Mandela nel giorno del suo insediamento abbandonò i presidenti arrivati a festeggiarlo, per
correre a vedere la partita tra Sudafrica e Zambia, scendere a fine primo tempo negli spogliatoi e salutare la squadra. Sapeva che lo sport è una questione di merito e che non si cancellano i simboli di una supremazia, per questo lo Springbok doveva restare sulle maglie, anche se per tanti era l’odioso segno dell’apartheid.
È stata la figurina preferita di molti calciatori. Dall’olandese Ruud Gullit che nell’87 gli dedicò il Pallone d’Oro, all’inglese David Beckham, al francese Lilian Thuram che lo incontrò nel ‘99 in occasione di un’amichevole: «Tutti erano isterici, volevano toccarlo, stringergli la mano, lui invece era sorridente e sereno».
È stato lo sport a trascinarlo fuori per la sua ultima apparizione pubblica, dopo sei mesi quasi di clausura. Perché quel pallone che non aveva mai viaggiato in Africa aveva bisogno della sua benedizione nella notte dell’addio della finale mondiale. E così Madiba a 94 anni ha attraversato ancora la storia. E si è mostrato al mondo per l’ultima volta. Re, principi e regine si sono alzati. E lui, in cappotto e colbacco nero, ben coperto da sciarpa e guanti, su una macchinetta elettrica, ha fatto, sorridendo, la sua invasione di campo allo stadio, accanto alla moglie Graca Machel. Senza vergogna per la debolezza e la fragilità del suo corpo. Anzi, fiero, di mostrare un Sudafrica libero e a testa alta. Ha sempre detto: «Sport has the power to change the world». Chissà se veramente lo sport può cambiare il mondo. Lui però ci ha creduto e ci è riuscito. Senza raccontare favole. «Scalata una collina ce n’è sempre un’altra». Grazie, coach.


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