La trincea del segretario
Queste primarie iscrivono un’ipoteca sulle sorti dell’esecutivo guidato da Enrico Letta e su quelle della legislatura
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La nascita della nuova maggioranza senza Berlusconi ma con Alfano e soprattutto la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale ha spinto il nuovo segretario democratico verso un vicolo cieco. E ha fornito un arsenale di motivazioni alla strategia del-l’attesa, alla teoria delle larghe intese e al rinvio della vera resa conti almeno al 2015. Il risultato di ieri potenzialmente mette a soqquadro tutto questo.
È come se gli oltre due milioni e mezzo di italiani che si sono dichiarati elettori del Partito democratico avessero voluto andare contro pelo. Certo, una adesione al voto così ampia – in controtendenza rispetto alle aspettative – dimostra la voglia di partecipazione di una fetta ampia di italiani. Un desiderio di politica proprio in una fase in cui ha avuto la meglio l’antipolitica. Ma segna anche l’aspirazione al cambiamento e al rinnovamento: in sintesi a tornare alle urne in tempi piuttosto brevi. Nel voto a Renzi, infatti, nessuno può nascondere che un elemento decisivo sia stata una certa aspettativa di elezioni. I militanti e i sostenitori del centrosinistra traguardano i loro obiettivi sulle urne. E per questo considerano il nuovo segretario del Pd il candidato più titolato ad affrontare la sfida elettorale. Quasi come un contrappasso la sentenza della Corte costituzionale che ha ripristinato il vecchio sistema proporzionale della Prima Repubblica, ha funzionato probabilmente da propellente per una base che ha interpretato quella decisione come un ritorno al passato.
Questo bagaglio di auspici che gli elettori hanno consegnato al sindaco di Firenze, dunque, non potrà che pesare sul rapporto tra il Partito democratico e il governo. Renzi, del resto, già ieri sera lo ha fatto capire in modo molto esplicito. Metterà i voti ricevuti al tavolo delle trattativa. Ma i suoi annunci devono fare i conti con la legge elettorale. Quella attualmente in vigore – prodotta dalla sentenza della Consulta – non gli permette al momento di compiere strappi. Proverà a giocare il successo conseguito in questa tornata per dare dei veri e propri strattoni alla maggioranza e approvare rapidamente una riforma che confermi il bipolarismo. Il nuovo segretario, ad esempio, non può accettare che la legge elettorale sia l’ultima tappa del percorso riformatore fissato dall’esecutivo. Licenziare prima l’abolizione del Senato lo mette in condizione di subire costantemente il ricatto del Nuovo centrodestra di Alfano e di chi punta a una crisi di governo nell’autunno del 2014 per tornare al voto con la proporzionale. Letta dovrà tenerne conto nel discorso che mercoledì terrà in Parlamento per ottenere la nuova fiducia.
Il leader democratico punta quindi ad invertire i fattori per non farsi ingabbiare: prima la riforma elettorale poi il resto. Per poter essere la guida programmatica di questo governo di larghe intese, imporre l’agenda del Pd senza gradualismi e incanalare la protesta della sua base. Non essere, insomma, il caudatario di una “strana coalizione”. È come se Renzi in questo momento vivesse l’incubo di essere visto come l’ultimo esponente della Seconda Repubblica e non il primo della Terza, e dunque gioca il suo consenso per rompere lo schema che si è consolidato in questi nove mesi. Ma resta un muro difficile da scalare: il Senato. Perché a Palazzo Madama senza il sì di Alfano e Casini, non passa nessuna legge di sistema. Dovrà verificare se contano più i numeri dell’opinione pubblica o quelli dei parlamentari. In questo secondo caso correrà il rischio di subire un lento logoramento fino alla primavera del 2015.
Ma c’è un altro elemento che ci consegnano queste primarie. Un cambio generazionale definitivo nella sinistra italiana. L’affer-mazione renziana è accompagnata dalla sconfitta del vecchio establishment Ds. Quello che qualcuno fino a poco tempo fa chiamava la “ditta”. Massimo D’Alema forse per la prima volta ha perso una competizione congressuale. Persino nella sua Puglia, dove si era candidato al fianco di Cuperlo, ha dovuto registrare una sonora sconfitta. Così come Bersani non ha invertito il trend nella sua Piacenza. Quel mondo che viene dall’ex Pci non c’è più. Gli iscritti al partito sono circa 500 mila: in maggioranza avevano già preferito Renzi nei congressi di circolo. Ma i due milioni e mezzo di votanti alle primarie hanno assestato un ulteriore colpo a quel gruppo dirigente.
In un solo giorno i sostenitori del centrosinistra hanno voluto archiviare la sconfitta subita alle elezioni del febbraio scorso e soprattutto salutare una generazione di dirigenti salutandone una nuova. Perché al di là della vittoria dell’ex rottamatore, dietro di lui i “big” del nuovo partito si chiamano Gianni Cuperlo, Pippo Civati ed Enrico Letta. Si è compiuto un salto generazionale. Anche cruento. Ma come accade in tutte le democrazie, dopo una sconfitta elettorale si girano le pagine e anche i volti.
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