by Sergio Segio | 24 Dicembre 2013 9:16
IL VOLTO migliore per raccontare questa storia è quello di Bassem Mohsen: rivoluzionario della prima ora, da subito in piazza in quel 18 gennaio del 2011 che vide l’Egitto risvegliarsi, Bassem era uno di quelli che non si erano mai arresi di fronte al declino della rivolta. Era rimasto in strada quando la giunta militare che aveva destituito Mubarak sembrava non voler lasciare il potere, aveva perso un occhio negli scontri con la polizia del novembre 2011, era finito sotto processo sotto il presidente islamista Morsi, poi era stato fra i leader dei Tamarod, il movimento che la scorsa estate aveva invocato la cacciata dei Fratelli musulmani e del loro leader. Bassem è morto domenica dopo essere stato colpito dai proiettili dei militari mentre manifestava contro quel governo che gli stessi Tamarod avevano contribuito a insediare. «Era un figlio della rivoluzione del 25 gennaio e di quell’Egitto che divora i suoi figli», scriveva ieri in Rete un blogger nel ricordarlo.
Di figli come lui, in questi quasi tre anni che lo separano dalla rivolta di Piazza Tahrir, l’Egitto ne ha divorati parecchi. Da mesi, uno dopo l’altro, i ragazzi che fecero la rivoluzione sono nel mirino: «La rete si stringe», titolava ieri l’Economist, ed è difficile dare torto al settimanale britannico. Da tempo è ormai chiaro che gli attivisti che hanno buttato giù Mubarak, i rivoluzionari che si erano illusi di aver cambiato il destino loro e del loro paese con quelle mitiche 18 giornate, sono diventati l’obiettivo del governo: composto da quegli stessi militari che erano stati loro a sostenere quando si trattava di buttare fuori dai palazzi del potere gli islamisti.
Domenica, mentre in un ospedale del Cairo moriva Bassem Mohsen, a qualche chilometro di distanza i giudici condannavano a tre anni di reclusione
tre dei volti più noti del Movimento del 6 aprile, il manipolo di giovani, sindacalisti e blogger che ben prima del 2011 aveva chiamato l’Egitto alla rivolta. Ahmed Maher, Ahmed Douma e Mohamed Adel erano finiti in carcere in base a una nuova legge che punisce tutti coloro che protestano senza autorizzazione contro il governo. Ieri centinaia di persone hanno
marciato nel centro del Cairo chiedendo la loro liberazione, ma è difficile che i tre possano uscire presto.
Con tutta probabilità una sorte simile a quella dei suoi tre amici toccherà anche ad Alaa Abdel Fatah, meglio noto come @Alaa, il più noto blogger egiziano, anche lui fra i fondatori del Movimento del 6 aprile, arrestato con le stesse accuse degli
altri: a fine novembre la polizia ha fatto irruzione di notte nel suo appartamento terrorizzando moglie e figlio e lo ha portato via, nonostante Alaa avesse fatto sapere che si sarebbe presentato agli agenti il giorno dopo. «Qui i regimi cambiano, ma una cosa resta sempre uguale: tutti arrestano @Alaa», scriveva poche ore dopo un altro blogger egiziano, ricordando che Abdel Fatah era stato imprigionato dagli uomini di Mubarak prima e da quelli di Morsi poi.
Per evitare una sorte simile, da qualche mese non fa ritorno in Egitto Wael Ghonim, il manager di Google che con la pagina Facebook “Siamo tutti Khaled Said” era stato tra i primi ad usare la Rete come mezzo per convogliare il dissenso contro Mubarak: accusato di essere un sostenitore dei Fratelli musulmani tramite un video manomesso e diffuso in Internet, Ghonim rischia l’arresto. Così vive all’estero e da mesi mantiene un amaro silenzio sulla situazione nel suo paese.
Non va meglio alle ragazze, altre grandi protagoniste delle giornate di Tahrir: Asma Mahfouz, l’impiegata velata che spinse migliaia di persone in piazza con un video pubblicato su Youtube, è sospettata di essere una spia straniera ed è sotto inchiesta. Mona Seif, sorella di Abdel Fatah, nelle scorse settimane è stata prelevata di sera insieme ad altre due attiviste e scaricata in piena notte nel deserto fuori dal Cairo, dopo essere stata minacciata e molestata da uomini misteriosi. Il giorno dopo ha denunciato l’accaduto, puntando l’indice contro i militari al potere: «Non ci fermeranno », ha detto. Sarebbe bello pensare che ha ragione: ma mentre l’anniversario della rivoluzione si avvicina a grandi passi, sui giovani che fecero grande Piazza Tahrir si allungano ombre sempre più minacciose.
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Sciopero della fame per 450 Fratelli musulmani “Condizioni disumane nelle carceri”
IL CAIRO — Oltre 450 detenuti egiziani, membri dei Fratelli musulmani, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il «trattamento inumano » al quale sono sottoposti. In seguito alla destituzione dell’ex presidente Mohamed Morsi, lo scorso 3 luglio, da parte dei militari, centinaia di attivisti della Fratellanza sono stati arrestati. A loro, si legge su un account Twitter gestito dal movimento islamista, non è permesso ricevere «visite familiari, l’assistenza legale, le cure mediche e le celle delle prigioni sono sovraffollate e non igieniche»: da qui la protesta di massa.
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