La lunga marcia di un’Icona pop il volto, l’idea, il mito

by Sergio Segio | 7 Dicembre 2013 8:41

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Era più difficile immaginare — quando usciva di prigione, mentre lo aspettavamo davanti alla casa di Soweto, durante la prima adunata di massa a Durban — che sarebbe diventato un’icona pop.
Un giornale britannico, ieri, s’è spinto a scrivere: «Mandela è secondo solo alla Coca-Cola come brand globale!». Un paradosso, ma è vero che Madiba e il suo sorriso sono finiti sulle T-Shirts, in molte opere d’arte (Andy Warhol), sulle etichette del vino («House of Mandela», chardonnay), nei reality show («Being Mandela»), in almeno dieci canzoni, innumerevoli biografie (anche qualche agiografia), un concerto-evento a Wembley, una dozzina di film. Il più celebre Invictus di Clint Eastwood con Morgan Freeman; l’ultimo, non ancora uscito in Italia, Long Walk to Freedom , lunga marcia verso la libertà.
Nelson Mandela — ancora vivente — non era solo un mito. Era già un ologramma politico, un marchio internazionale. Come Lenin, come Mao Zedong, come JFK, come Martin Luther King, come Che Guevara, senza passare da una morte drammatica e prematura, come gli ultimi tre. Madiba ha avuto una lunga vita, invece, appassionata e appassionante, eroica e controversa. Allora perché per i ragazzi del mondo — e non solo per loro — è diventato un simbolo? La risposta è semplice e consolante: perché serviva un bel volto cui collegare una buona idea. Ai giovani di Chicago o di Copenaghen, di Melbourne o di Milano, non importano i rapporti con la moglie Winnie o gli eccessi dell’African National Congress (Anc). Importa che qualcuno — per tutta la vita, e con la sua vita — abbia detto chiaro e forte che tenere bianchi e neri divisi era sbagliato; che l’apartheid era un’aberrazione; che il razzismo non poteva nascondersi dietro una formula giuridica, per quanto abile. Mandela è un’icona per questi motivi: cristallizza un’idea di progresso, e la diffonde. Una semplificazione, uno stereotipo? Forse, ma che importanza ha? Anche Barack Obama ha conosciuto lo stesso trattamento, ma serve agli Stati Uniti d’America per compiere un altro passo sulla strada dell’uguaglianza. L’uomo della Casa Bianca è andato, pochi giorni fa, a sedersi sull’autobus dove una donna nera, Rosa Parks, 58 anni si ribellò alla segregazione razziale. Poi s’è commosso alla notizia della morte di Nelson Mandela: perché ha visto, in questi passaggi, anche il suo destino. Se sarà bravo: l’America del Nord non concede infatti le attenuanti dell’Africa del Sud.
Jesse Jackson — leader dei diritti civili, icona potenziale e mancata — sostiene: «Il più importante contributo di Mandela al mondo è stato sostanziale, non simbolico». Sbaglia: è stato sostanziale e simbolico, le cose non sono incompatibili. Certo, Nelson Mandela ha rinunciato alla violenza e ha riportato il suo Paese nella comunità delle nazioni; ma è stato anche una metafora di questa riscossa. David Cameron, Ban Ki-moon, Dilma Rousseff, Elisabetta II, il presidente cinese Xi Jinping, George W. Bush, Jimmy Carter, Christine Lagarde: sono alcuni dei personaggi che, nelle ultime ore, hanno utlizzato la parola «symbol» per ricordare Nelson Mandela.
Hanno solo ripetuto quello che milioni ragazzi nel mondo, portando Madiba sul petto, avevano capito da tempo.

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