La figuraccia istituzionale

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Un provvedimento che il capo dello Stato aveva firmato riconoscendone i requisiti di necessità e urgenza si è trasformato in un “gigantesco insetto” perdendo così la forma iniziale e assecondando i “micro-interessi” di senatori e deputati. La vecchia abitudine della Prima Repubblica, quella di usare il cosiddetto “collegato” alla Finanziaria come un veicolo capace di superare indenne ogni dogana del buon senso.
L’iter parlamentare di questo provvedimento testimonia lo stato confusionale in cui versa il Parlamento. Ma gli errori coinvolgono anche il governo in una sorta di responsabilità oggettiva. Molti di quegli emendamenti che hanno costretto Palazzo Chigi a fare marcia indietro, infatti, avevano ricevuto il giudizio favorevole dell’esecutivo. Il segno che una maggioranza così composita, spesso in contraddizione con se stessa, obbliga il governo a un atteggiamento troppo spesso accondiscendente. Le spinte centripete delle larghe intese prendono quindi corpo in primo luogo nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Non si capirebbe altrimenti perché un decreto che puntava a tirare fuori il comune di Roma dalle sabbie mobili di un bilancio disastroso e sull’orlo del
bailout, si sia improvvisamente riempito come un treno merci. Merci di ogni tipo: fondi per il comune di Pietrelcina, il paese di Padre Pio, per il palazzo municipale di Sciacca o per i teatri San Carlo di Napoli o la Fenice di Venezia. Un guazzabuglio in cui un po’ tutti hanno voluto far valere, appunto, le istanze “microterritoriali”. Che altro non sono che le richieste individuali di singole comunità.
Certo, in una fase in cui il rapporto tra eletto e cittadini è sostanzialmente svanito a causa di una legge elettorale capace di mortificare gli italiani negando il diritto di scegliere i propri rappresentanti e assegnando alle segreterie di partito il potere di nominare i parlamentari, l’interesse mostrato da senatori e deputati per le urgenze manifestate a livello locale potrebbe evidenziare anche qualche aspetto positivo. Peccato che questo accada solo in determinate circostanze: quando cioè c’è la straordinaria opportunità di infilare qualche milione in questa o in quella posta del bilancio pubblico.
Al di là, però, della gestione un po’ confusionaria, esiste un altro aspetto che va tenuto in considerazione e su cui ricadono le principali responsabilità. I requisiti di necessità e urgenza che caratterizzano i decreti devono essere conservati in tutto il loro percorso parlamentare. I testi per la conversione in legge, dunque, hanno bisogno di mantenere intatte le medesime caratteristiche. Non possono diventare un vagone da riempire con qualsiasi prodotto. Va mantenuta l’omogeneità nella materia e l’effettiva urgenza del provvedimento.
Questo significa che durante l’esame parlamentare, prima i presidenti di commissione, poi i presidenti delle due Camere hanno il preciso compito di valutare l’ammissibilità degli emendamenti. Dovevano essere loro a stabilire — come poi ha dovuto fare il presidente della Repubblica per evitare un capitombolo costituzionale — se le modifiche proposte erano coerenti con la natura del decreto. Questa omissione è forse più grave della disponibilità mostrata dal governo nei confronti della sua maggioranza. È comprensibile — ma non giustificabile — l’atteggiamento di Palazzo Chigi dettato dal tentativo di non irritare la sua strana coalizione e di non rendere una battaglia campale l’approvazione di quella che un tempo si chiamava Legge Finanziaria. Il via libera sul filo del rasoio natalizio ha probabilmente reso più approssimativa la ponderazione di certe scelte. Ma le presidenze del Senato e della Camera non sono sottoposte nemmeno a questa “spinta” politica. E infatti da parte del Quirinale, i dubbi si sono concentrati anche su questo cedimento. Sulla mancata vigilanza rispetto al tentato stravolgimento del decreto. Risultato: oggi il Consiglio dei ministri varerà un altro decreto che conterrà solo le norme “salva-Roma”, quelle sugli affitti pubblici, il divieto di incrocio azionario tra tv e giornali e qualche proroga “obbligatoria”. Salterà tutto il resto e viene rinviata a gennaio la definizione della tassazione sulla casa, la Tasi, e lo stanziamento di nuove risorse per i comuni. Tutto sarà inserito nel decreto che ha cancellato l’Imu 2013 e che va approvato entro gennaio.
Alla fine, comunque, la figuraccia ha coinvolto tutti: governo, Parlamento e l’intera classe politica. In una fase in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è giustamente altissima sugli sprechi e sugli eccessi, bastava forse un po’ di saggezza da buon padre di famiglia per evitare di fornire all’antipolitica l’ennesimo pretesto per aizzare gli animi e chiudere l’anno con un’altra dose massiccia
di demagogia.


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