La destra anti-europea

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Questo rende il vecchio continente a permanente rischio autoritario e illiberale. I recentissimi dati sul gradimento dei movimenti di destra dal Nord scandinavo al Sud mediterraneo confermano questa lettura. Due argomenti unificano i vari movimenti, più o meno settari e a vocazione nazional-protezionista: la disoccupazione e l’immigrazione. La responsabilità dei quali è imputata alla tolleranza nei confronti delle minoranze, ovvero all’Europa della carta dei diritti. La rinascita della destra marcia quindi insieme all’accusa populista rivolta alla dirigenza europea di chiedere sacrifici agli stati membri senza un piano preciso oltre alla salvaguardia dell’Euro, un obiettivo che non solo non è avvertito dall’opinione pubblica come giustificabile ma è inoltre associato agli interessi dell’élite economica e finanziaria.
Si tratta di ingredienti esplosivi che hanno mostrato i loro effetti devastanti altre volte in passato. Tra i temi che uniscono i vari movimenti di destra insieme a quello anti-immigranti e anti-Euro vi è quello antisemita, celato dietro l’identificazione non nuova tra l’alta finanza globale e la lobby ebraica. In un volume uscito pochi anni fa per Bollati Boringhieri e che prendeva il titolo da un’espressione di August Bebel,Il Socialismo degli imbecilli,Michele Battini spiegava l’uso antisemita dell’argomento anticapitalista, forte soprattutto nei periodi di crisi economica. Del resto, in Europa il regime dei diritti è sorto sul tronco della nazione; ciò ha fatto della cittadinanza una condizione associabile da un lato all’identità etnica e dall’altro al benessere economico. La democrazia che è nata dopo la Seconda Guerra ha conquistato credibilità sancendo un compromesso di ferro tra la libertà e il lavoro con l’esito che i molti sono diventati per la prima volta i rappresentanti dell’interesse generale della società.
Sconfiggere la povertà eliminando la disoccupazione: questo fu il presupposto sociale della democrazia europea. Il cambiamento fu epocale e coinvolse anche la scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche programmatiche dei governi centrali. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo cambiamento vincendo la guerra contro il liberismo sulle barricate della crisi del 1929, che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda, un nazionalismo rampante e regimi totalitari. Disoccupazione/ reazione autoritaria, occupazione/ democrazia: per quanto semplicistiche, queste due coppie hanno segnato il ritmo della storia politica europea del ventesimo e, a quanto pare, del ventunesimo secolo.
L’Europa che si prepara alle elezioni per il rinnovo del suo Parlamento rischia di diventare il capro espiatorio delle sofferenze sociali ed economiche causate da questa lunga crisi recessiva e non lenite dal patto di stabilità che sembra parlare una sola lingua: quella dei sacrifici, della riduzione delle politiche sociali, dell’aumento delle tasse, del contenimento dell’occupazione. Un ciclo perverso di costi senza benefici palpabili che ha minato il nobile compromesso di lavoro e democrazia. La nuova destra che cresce nei consensi in tutti gli stati membri dell’Unione, da Nord a Sud, va letta come l’esito della conversione al liberismo dell’Unione europea, nonostante la retorica dell’Europa sociale che appartiene a tutti gli effetti a un progetto defunto, abbandonato insieme alla volontà di unificazione politica dell’Unione. La diseguaglianza sociale ha seguito questo percorso, aumentando insieme alla conversione neo-liberista. Abbiamo assistito in questi anni ad una redistribuzione delle risorse e delle opportunità a favore dei percettori dei profitti e delle rendite senza che a ciò seguisse uno stimolo degli investimenti. Il costo per la democrazia è sempre più alto anche perché la crescita della diseguaglianza materiale rende i più abbienti insofferenti verso i bisogni di chi ha sempre meno e i meno abbienti insofferenti verso i nuovi poveri e gli immigrati. Inimicizie di classe a scalare: segno della paura generale di impoverimento e di sfiducia nelle capacità della democrazia di mantenere la sua promessa. Da qui occorre partire per comprendere le ragioni e i programmi della nuova destra europea.
Nel programma del Freedom Party olandese che ha siglato poche settimane fa l’alleanza elettorale con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen la retorica protezionistica e anti-universalista (i diritti ai “nostri” contro gli “altri”) ha trovato largo spazio. L’attacco alle lobby ebraiche e della finanza si è combinato a quello contro la dirigenza burocratica europea e soprattutto la tolleranza verso gli immigrati. La retorica autoritaria si è tinta anche di un linguaggio cristiano nel nome del quale la lotta contro l’immigrazione diventa lotta contro la cultura islamica, scontro di civiltà e valori dai toni cupi e, purtroppo, facili. Se la sinistra non ha più un’ideologia, la destra ne ha una potente. L’alleanza tra destra olandese e francese, salutata dai rispettivi leader come “storica”, si è data l’obiettivo di «liberare l’Europa dal mostro di Bruxelles» e ha incassato in pochi giorni l’adesione di altri partiti xenofobi: il Freedom Party austriaco, la Lega Nord, il People’s Party danese e il movimento svedese di destra. Così la leader Le Pen nella conferenza dell’Aia che ha siglato il patto tra il suo partito e quello olandese: «Il tempo in cui i movimenti patriottici erano divisi, oggetto di paura e demonizzati, è finito». La destra europea è organizzata e unita e si appresta a conquistare l’Europa, detronizzando i mistici dell’Euro e, insieme a loro, la cultura e la pratica dei diritti per cui l’Europa è andata fiera nel mondo.
Un’Unione europea fortemente sbilanciata a destra è un obiettivo purtroppo non irrealistico in questa età di impoverimento e di malcontento. Anche perché le forze socialiste e democratiche non sanno opporre con la necessaria determinazione proposte capaci di rilanciare il connubio lavoro-diritti. E così si ipotizza che il 30% dei seggi parlamentari verrà occupato dai partiti anti-europei. Il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha messo in guardia nei confronti di questa retorica populista e xenofoba. Ma il lamento non sortisce effetto se l’Europa non sa mantenere la promessa di costruire e difendere una cittadinanza democratica sociale.


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