La culla cinese

by Sergio Segio | 12 Dicembre 2013 11:19

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PECHINO. Un altro bambino? Troppo tardi. Siamo cresciuti tra figli unici, siamo abituati così. Lo Stato ha sconvolto la testa della gente: se ora il partito ha problemi, obblighi i suoi funzionari, a fare più figli ». Gu Yingnan ha 32 anni ed è capo del personale di un’azienda di Pechino che produce pannelli solari. Per dieci anni, assieme al marito Defu, ha sognato di donare una sorella al figlio Wenzhi. Ora che il suo desiderio potrebbe realizzarsi, le è passata la voglia. «Ci hanno fatto indebitare per una casa da tre — spiega seduta sul divano-letto del suo bilocale nel quartiere degli affari — abbiamo quattro genitori anziani da assistere, una macchina da pagare e mio marito lavora a Shanghai. Questa è una Cina per figli unici: ci siamo rassegnati, preferiamo avere i soldi per le vacanze, se i leader hanno nostalgia delle famiglie tradizionali, prima cambino il Paese».
Nel 1980 obbligare i cinesi ad avere meno figli è stato difficile: dal 2014 costringerli ad averne di più non sarà un’impresa facile. L’addio al figlio unico rischia così di diventare l’incubo del «sogno cinese» lanciato dal presidente Xi Jinping: le autorità restituiscono libertà, ma il popolo la rifiuta. È trascorso meno di un mese dallo storico annuncio del Plenum: con il nuovo anno basterà che uno solo dei partner sia figlio unico perché una coppia possa mettere al mondo due bambini. Dopo quasi 35 anni di divieto però, in Cina non si annuncia un baby-boom. È un’altra sfida epocale: bloccare il più grande esperimento di ingegneria sociale della storia, applicato alla popolazione più numerosa del pianeta. Chi prevedeva di assistere a masse di sposi scendere nelle piazze a brindare, è rimasto deluso. «Siamo quasi 1,4 miliardi di individui — dice Yuan Xin, demografo dell’università Nankai di Tianijin — ma il problema è che non siamo del tipo giusto. La pianificazione famigliare doveva durare una generazione. Ora siamo oltre la terza e il cinese medio è maschio, poco istruito, vecchio e solo».

Le autorità — aggiunge Yuan Xin — puntano sui giovani laureati della classe media urbanizzata. Ma per questi ormai un figlio è anche troppo». Come se il divieto temporaneo di procreare, per ordine di partito, fosse mutato in un’eterna condanna. Deng Xiaoping non conosceva la demografia e alla fine degli anni Settanta, sopravvissuto ai trenta milioni di morti di fame del “Grande balzo in avanti”, voleva assicurare ad ogni cinese «una ciotola di riso». Tagliare le bocche gli parve più rapido che moltiplicare i raccolti. Non ha previsto però nemmeno l’evoluzione dell’economia: ieri il dramma dei figli negati ha contribuito al successo della Cina, oggi minaccia di renderlo vano. Trentacinque anni fa il reddito medio equivaleva a 200 euro all’anno e ogni donna aveva in media sei figli. Oggi ogni cinese guadagna annualmente 6 mila euro e il tasso di natalità è di 1,08, il più basso del pianeta.
«Per avere una società equilibrata — dice Yang Wenzhuang, capo del dipartimento nazionale di pianificazione famigliare — ci occorrono 2,2 figli per donna, il doppio di oggi. Altrimenti, fino al 2050, perderemo 3,25 punti di Pil». I funzionari restano abituati alle ragioni dei tecnocrati rossi: le persone sono ingranaggi di una macchina e il modello lo scelgono loro. La realtà però è che i cinesi che hanno obbedito all’ordine di fermare la vita, non sono gli stessi che dovrebbero eseguire il comando di farla ripartire. Fu Zhen, bancario di Chongqing, ricorda il giorno in cui la madre «tornò a casa con la pancia vuota». «Avevo sei anni — dice — e avevo deciso che per fare spazio a un fratello mi sarei trasferito dal letto al pavimento. Quando era tutto pronto, mia mamma si sgonfiò. I funzionari la obbligarono ad abortire al settimo mese. Sono cresciuto con il sapore della solitudine, deciso a non concepire i neonati come strumenti nelle mani del potere. Sono sposato, ma con mia moglie abbiano scelto di non avere bambini su ordinazione». Tre dei massimi demografi cinesi l’hanno battezzata «sindrome del figlio unico di ritorno». I figli unici, per protesta contro lo Stato che li ha condannati a crescere soli, optano per il «nido vuoto». «La pianificazione famigliare di Deng — hanno scritto — assieme alla Rivoluzione culturale e al Grande balzo in avanti di Mao Zedong, verrà presto aggiunta all’elenco delle peggiori tragedie della storia moderna cinese. Con una differenza: le atrocità maoiste potevano finire, la legge del figlio unico no». Gli effetti, nell’ultimo trentennio, per la Cina sono stati devastanti: 400 milioni di persone in meno, 336 milioni di aborti forzati, 200 milioni di donne e altrettanti uomini sterilizzati. Costretti alla scelta secca tra femmina e maschio, i genitori hanno scelto il secondo, per avere qualcuno che li possa mantenere da vecchi. «L’allungamento della vita — dice Zhai Zhenwu, direttore dell’istituto di sociologia dell’Università del popolo di Pechino — nel nostro paese in via di sviluppo è stato più rapido del previsto e la mancanza di un welfare moderno ha fatto il resto: abbiamo quasi 40 milioni di maschi in eccesso rispetto alle femmine e l’invecchiamento può bloccare la crescita». I dati confermano: la Cina conta oggi 194 milioni di over 60 e nel 2050 saranno 430 milioni, più degli abitanti degli Usa. Quest’anno 13.600 scuole hanno chiuso per mancanza d’iscritti, mentre nella capitale l’attesa per un posto in casa di riposo è di cento anni. Un cinese su tre nel 2040 sarà un anziano, mentre lo squilibrio sessuale, nelle campagne, raggiunge picchi di 135 maschi ogni 100 femmine: una popolazione maschile pari a quella dell’Italia è condannata a non avere una compagna.
L’urgenza di fermare la tragedia, per i prìncipi rossi eredi dei rivoluzionari di Mao, è evidente. Ma perché solo adesso e con quali possibilità di successo? «La Cina — dice l’economista Gu Baochang — deve trasformarsi da fabbrica del mondo a primo mercato interno. Agli operai devono sostituirsi i colletti bianchi, ai villaggi rurali le metropoli del terziario. Il capitalismo, senza forza lavoro e senza consumatori, crolla. Non c’era scelta: ma deve fare figli la nuova classe media urbana, non la vecchia famiglia rurale. Il guaio è che il destinatario della riforma, stenta ad accettare ordini nella sua vita privata». La propaganda del partito però ce la mette tutta. In una notte a Pechino sono scomparsi i manifesti che ammonivano «Una culla in più significa una tomba in più», oppure «La patria è troppo stanca per sostenere più bambini». Al loro posto, mamme sorridenti che cambiano pannoloni e papà felici che tirano aquiloni con due figli per mano. Lo slogan, dopo 35 anni, in poche ore è cambiato: «La forza della Cina è la famiglia».
L’obiettivo è convincere i cinesi a mettere al mondo da 1 a 2 milioni di neonati all’anno in più, da 7 a 10 entro il 2020. «Le donne in età fertile — dice Qiao Xiaochun, ricercatore della commissione nazionale di pianificazione — sono 79 milioni e il 48%, essendo figlie uniche, potranno generare due bambini. Sono oltre 39 milioni di donne e almeno la metà si è dichiarata interessata al secondo figlio. Se solo un quarto lo farà, avremo dieci milioni di cinesi in più». Tivù e giornali di Stato, da metà novembre, martellano con storie di coppie che scelgono la data più fortunata per lo storico accoppiamento post-liberazione. Programmi in serie mostrano reparti maternità e asili in costruzione, che «si preparano al felice assalto», mentre le rubriche economiche spiegano il boom in Borsa delle aziende che producono latte in polvere, pannoloni, pappe, giocattoli e perfino pianoforti. Non mancano i documenti, fino a ieri censurati, sul dramma della legge del figlio unico: le fiere di attrezzi sessuali per single, le corriere di donne nubili nelle regioni interne, i villaggi abitati solo da vecchi. Non è ancora caduto il muro sulla verità dei bambini negati dal regime, sulla sua violenza e sul dolore che ha sconvolto tre generazioni, in particolare tre generazioni di donne, ma il “contrordine compagni” risulta inequivocabile: alla Cina, per scongiurare la destabilizzazione sociale, salvare il partito-Stato e superare gli Usa nel controllo del secolo, adesso «servono più cinesi». Ragazzi per tenere basso il costo del lavoro, adulti per alzare consumi e Pil, donne per generare altri lavoratori-consumatori. Il “Quotidiano del popolo” l’ha definito «un patto nell’interesse del mondo». «Ma la verità — dice Han Xue, maestra in una classe con 32 scolari e 7 alunne — è che ai poveri si chiede sempre un sacrificio diverso. Prima non fare bambini, ora il contrario. Per i ricchi il divieto non è mai esistito. Per gli altri, allevare ed educare un figlio oggi in Cina costa 25 anni di stipendio: per compiacere il partito, i genitori rischiano di tornare a fare la fame».
Tra un anno sapremo quanti saranno stati i «figli dell’addio al figlio unico» di Xi Jinping, i primi bebè cinesi a non potersi fregiare del titolo di “piccoli imperatori”. «Ma già oggi — dice Long Xiaolan, designer pechinese che dopo aver tentato un parto vietato a Hong Kong ora prende acido folico per dare subito una sorella al primo figlio — sappiamo che per regolare la vita basta la natura, non serve un partito».

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